Dare la vita
di Michela Murgia
Rizzoli 2024
Ho letto un libro scomodo, che mi ha suscitato molte domande ma che prova anche a proporre qualche risposta, sia pure parziale e da discutere: è Dare la vita, il libro postumo di Michela Murgia, curato da Alessandro Giammei, uno dei suoi “figli d’anima”.
Il libro affronta i temi dell’identità e delle relazioni umane che si definiscono – ma forse sarebbe più giusto dire che si costituiscono – a partire da queste stesse identità. Definire e nominare – per quanto siano azioni in qualche modo necessarie – escludono chi non si sente rappresentato da queste definizioni. Murgia dichiara la necessità di affrontare il tema della sua identità perché ha capito che le persone che la incontravano non la pensavano queer o, come scrive lei, “sulla soglia”: alla luce di come appariva e della sua storia, tutti davano per scontato che lei fosse etero, cis, straight. Eppure, ci sono modi diversi di stare al mondo, di fare famiglia, di vivere il quotidiano, e Murgia ce li racconta anche a partire da esperienze molto concrete (i viaggi, per esempio).
Un’altra grande questione che il libro affronta è la gestazione per altrə, definizione che Murgia preferisce decisamente (e anche io) rispetto a “maternità surrogata”. La gravidanza – una volta curiosamente chiamata stato interessante: per chi?, nota Murgia – è cosa molto diversa dalla maternità. Accompagnando il lettorə con intensità, l’Autrice constata che avere delle regole è sempre meglio che non averne: la stessa cosa vale, per esempio, a proposito dell’aborto o della rinuncia alla potestà.
La lettura di Dare la vita mi ha insegnato ancora una volta a non dare mai nulla per scontato. Per esempio, ci colpisce e interroga la gravidanza per altrə, ma non ci poniamo nessun problema se una donna è costretta a lasciare la propria famiglia e lə suə figliə per venire ad assistere i nostri vecchi, consentendoci così di vivere comodamente la nostra vita. Che prezzo diamo a ciò che questa donna perde – a ciò che tutte queste donne perdono – per il nostro “benessere”?
di Anna Urbani