di Mara Rumiz

”L’abolizione della guerra è un progetto indispensabile e urgente
se vogliamo che l’avventura umana continui”
da Una persona alla volta, Gino Strada, Feltrinelli

Difficile scrivere qualcosa su Gino Strada. Non per non sapere cosa scrivere ma perché da scrivere ci sarebbe proprio tanto. Gino era (ogni volta che scrivo era mi viene un groppo alla gola) un vulcano di cose diverse: certamente medico, anzi, chirurgo, fondatore di Emergency, ma anche pensatore e divulgatore, scrittore, attivista accanito per la giustizia, l’uguaglianza e contro la guerra. E per me era un amico, anzi, è ancora un amico. Non è semplice, dunque, condensare in un paio di pagine quello che Gino è stato, tant’è che mentre scrivo mi vengono in mente tanti episodi, tanti discorsi, tante serate passate insieme. Quasi quotidianamente gli parlo, gli chiedo consiglio, lo interrogo su cosa farebbe lui in questo mondo che si è riempito ovunque di guerre, di ingiustizie, di diseguaglianze.

Era nato a Sesto San Giovanni, definita per anni la Stalingrado d’Italia, da una famiglia operaia dai forti principi. Dopo il liceo, si iscrisse a Medicina e, in seguito, si specializzò in Chirurgia d’urgenza al Policlinico di Milano. Lavorò per quattro anni a Stanford, negli Stati Uniti, ma, quando gli proposero un contratto stabile, nonostante le condizioni economiche vantaggiosissime, decise di rinunciare perché non ammetteva che per potersi curare la gente dovesse pagare, come succede ancor oggi, e tornò a Milano. 
Gino non era, però, persona capace di stare ferma e, agli inizi degli anni ’80, partì con la Croce Rossa per Quetta, nel Pakistan, iniziando a lavorare presso il Centro Chirurgico per feriti di guerra. E qui vide, toccò, curò le tante vittime della guerra provenienti da Kandahar, per la maggior parte bambini, donne, civili. I bambini erano vittime, soprattutto, delle mine antiuomo, che avevano la forma di un giocattolo, I pappagalli verdi, che danno il titolo al suo primo libro.
I bambini feriti, mutilati, morti a cause delle mine e delle bombe segnarono il percorso di lavoro e di vita di Strada. Dopo Quetta partì per Kabul e lì, tra un intervento chirurgico e l’altro, si mise a consultare i registri dei ricoveri e le cartelle cliniche fino a scoprire che solo il 7% dei pazienti era costituito da combattenti; gli altri erano bambini, anziani, donne, che nulla c’entravano con la guerra.
Fu da questa scoperta che Gino con Teresa, sua moglie, e alcuni amici storici, cominciò a pensare di mettere in piedi una piccola organizzazione per curare le vittime della guerra.  Fu così, intorno al tavolo della cucina di Gino e Teresa, che nacque Emergency, nella primavera del 1994.
Il primo ospedale fu nel Panjshir, in un villaggio ai piedi dell’Hindokush, a cui seguirono, dopo l’attentato alle Torri Gemelle e l’inizio dei bombardamenti statunitensi, l’ospedale di Kabul e quello di Lashkar-gah.

Per Gino la cura non era fatta solo di farmaci e interventi chirurgici ma, innanzitutto, di attenzione alla persona, al suo benessere. Sosteneva che la sanità dovesse basarsi su tre principi: eguaglianza, qualità, responsabilità sociale. Ciò comporta che le cure devono essere accessibili a tutti, senza alcuna discriminazione, che devono essere gratuite e di alta qualità. Gino pretendeva che gli ospedali fossero anche belli. La bellezza, come la intendeva lui, non era una qualità semplicemente estetica ma un elemento della cura stessa. Se una persona malata o ferita o mutilata sta in una stanza piena di luce, con le finestre aperte su un bel panorama, con un giardino dove passeggiare anche se in sedia a rotelle, ha voglia di guarire, di guardare al futuro. Su questa visione sono sorte anche delle polemiche. Più di qualcuno ha detto che con i soldi che Emergency spenda per fare belli gli ospedali, si riuscirebbe a mandare in Africa molti più vaccini e antibiotici. È la logica del “meglio che niente”. Gino, invece, ha sempre voluto portare in Africa il meglio, nel rispetto del principio dell’eguaglianza: "nell’ospedale, che sia in Afghanistan, in Sudan, in Uganda, devi poterci mandare tuo figlio".

Dal 1994 Emergency è intervenuta in 21 Paesi costruendo ospedali, centri di riabilitazione, centri pediatrici, centri di primo soccorso, ambulatori, polibus sanitari, ecc. e ha curato più di 13 milioni di persone. Nel 2006 è stato istituito anche il Programma Italia, non certo per far concorrenza al Sistema Sanitario Nazionale, che si pretende venga salvaguardato e funzioni, ma perché il diritto alla salute sancito dalla Costituzione è spesso disatteso. Gli ambulatori aperti nel territorio nazionale, come quello di Marghera, operano in sinergia con le Istituzioni -  ASL, Comuni, Regioni, Prefetture - al fine di ridurre le barriere e consentire l’accesso alle cure della popolazione più vulnerabile.
A proposito di ospedali e ambulatori, c’è da aggiungere che Emergency, quando decide di avviare un progetto in un Paese dell’Africa o dell’Asia o del Medio Oriente si preoccupa di formare e assumere personale locale. Li aiutiamo a casa loro, mi verrebbe da dire: non solo si curano le persone, ma le si formano e si offre loro un lavoro. Gino sosteneva che il nostro maggiore obiettivo è quello di diventare inutili, sottintendendo che, una volta costruita la struttura, assunto e formato il personale, Emergency è pronto ad andarsene lasciando l’ospedale alle Istituzioni locali.

Curando le vittime della guerra Strada si convinse della necessità di impegnarsi per eliminare la causa delle morti, delle mutilazioni, delle ferite: la guerra stessa. Non è a caso, quindi, che la promozione di una cultura di pace e di rispetto dei diritti umani, sia il secondo punto statutario di Emergency. Del resto è la stessa Costituzione Italiana che con l’art. 11 sancisce che "l’Italia ripudia la guerra come strumento di offesa alla libertà degli altri popoli e come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali; consente, in condizioni di parità con gli altri Stati, alle limitazioni di sovranità necessarie ad un ordinamento che assicuri la pace e la giustizia fra le Nazioni; promuove e favorisce le organizzazioni internazionali rivolte a tale scopo". 
Gino non si è mai definito pacifista, ma era convintamente contro la guerra. Citava spesso il Manifesto di Russel contro lo sviluppo delle armi di distruzione di massa, che poneva con nettezza l’interrogativo: "metteremo fine alla razza umana, o l’umanità rinuncerà alla guerra?".
Scrive nel libro Una persona alla volta: "Servirebbe scrivere oggi, più di sessant’anni dopo, un nuovo Manifesto con la stessa ispirazione, la stessa consacrazione del valore scientifico e della neutralità politica? Non lo so, ma so, per quello che ho visto con i miei occhi, che la guerra non si può umanizzare. Non si può renderla meno pericolosa, crudele e folle, meno omicida e meno suicida. La guerra si può solo abolire". 
Essendo medico, Gino spesso paragonava la guerra al cancro. Quando qualcuno gli faceva presente che la guerra è sempre esistita e che è impossibile debellarla, lui rispondeva che il cancro continua a tormentare e uccidere tante persone ma questo non significa che la scienza debba fermarsi: al contrario dovrà essere intensificata la ricerca. Si sono fatti enormi passi in avanti nella tecnologia, nella medicina, nella scienza, ma la guerra è rimasta l’opzione a cui si fa sempre ricorso in caso di conflitti tra Stati. L’abolizione della guerra può essere considerata un’utopia ma in passato anche l’abolizione della schiavitù sembrava un’utopia. L’utopia, in fondo, è solo un progetto non ancora realizzato.

Gino se ne è andato il 13 agosto del 2021, alla vigilia del ritorno dei Talebani a Kabul e dell’indecorosa fuga degli Americani e dei loro alleati. Se ne è andato con due grandi progetti in testa, uno dei quali è stato realizzato ed è pienamente attivo: la nave Life Support, che fa attività di ricerca e soccorso nel Mare Mediterraneo e che, a un anno dal varo ha effettuato 27 missioni e salvato dal naufragio 2.417 persone. Il secondo, è ancora in fase di cantiere: il varo di un Centro Internazionale contro la guerra, nella sede della Giudecca. Ci teneva moltissimo, il dottore, a una presenza forte, autorevole, a Venezia. Qui aveva abitato, qui voleva tornare. Amava molto la nostra città, la amava da uomo che ne apprezzava la quotidianità e non solo lo splendore delle architetture, dell’arte, del paesaggio. Quando tornava, non mancava mai di andare a Rialto, non solo per fare le spese, ma per passare a salutare Cristina e Gianni, al banco del pesce, a bere un’ombra all’Arco, a fare quattro chiacchiere con gli amici ma anche con chi lo fermava per strada. Quando non era in giro per il mondo, si godeva la casa e gli amici: cucinava magnificamente. Imperdibili la sua paella, le sue tagliatelle preparate a mano, la genovese, il tonno con i pistacchi… Scherzava, rideva, accogliente con tutti. Era un uomo libero. Certo con le sue idee e, ancor di più con i suoi principi, aperto al confronto e all’accoglienza di chi la pensava diversamente ma senza concessioni e senza alcuna ipocrisia. Era - e questo è forse il tratto che più lo connota -  un visionario, un visionario che non si perdeva a guardare la luna ma che faceva in modo che la sua visione o utopia che dir si voglia, si trasformasse in realtà.