Il povero, scriveva Rainer Maria Rilke in un libro amato da Etty Hillesum – è “come la pioggia di primavera, che, felice, batte sui tetti delle città”; è come “la pioggia che cade su terra scura a primavera”, quella pioggia che dona a “noi che pensiamo la felicità / come un’ascesa”, “l’emozione / quasi sconcertante / di quando cosa ch’è felice cade”. “Si deve diventare […] così semplici e senza parole come il grano che cresce o la pioggia che cade” – scrive Hillesum nelle righe che chiudono la nota di Chiara Anna Lazzarin. Come grano che diviene per tutti pane spezzato, acqua che tutti disseta – perché questo è il vivere del povero: farsi cibo e bevanda, “balsamo per molte ferite”.
Paolo Bettiolo
Un tuffo nella sorgente della vita. L'esperienza della natura in Etty Hillesum
di Chiara Anna Lazzarin
La natura accompagna Etty Hillesum durante tutto il suo cammino di vita come una timida compagna di viaggio. Nei Diari 1941-1943 e successivamente nelle Lettere – scritti che testimoniano il percorso psicologico e spirituale della giovane – essa si mostra come silenziosa e gentile presenza a cui affidare insicurezze e paure esistenziali, quasi una dimensione dell’anima dove riposare e trovare pace, ma anche riflesso del suo Sé più autentico e profondo. L’incontro di Hillesum con la natura avvolge il suo esistere quotidiano e si basa su un’esperienza diretta di essa: attraverso il mazzo di fiori posto sulla scrivania, gli uccelli che volteggiano nel cielo, o la brughiera che si estende al di là del campo di Westerbork. E questo, in linea con il genere letterario degli scritti, dove le acute intuizioni filosofiche e spirituali si intrecciano ai più semplici dettagli quotidiani.
Il pensiero che costruisce pietra per pietra è dunque un pensiero vissuto, che ha la sua sede nel cuore1. Esso attinge direttamente a un’interiorità che attraverso l’introspezione e la preghiera diventa spazio di ascolto, dimora accogliente dove custodire con cura la propria indipendenza e libertà dalla realtà esterna. Uno spazio che ricorda il Weltinnenraum2 di Rainer Maria Rilke, ossia “lo spazio interno del mondo” che attraversando l’anima di ogni essere vivente abita l’intero cosmo. Ed è lì che si apre quel mistero del mondo alla cui fonte Hillesum si abbandona spontaneamente, lasciandosi trascinare dalla sua corrente.
Dentro di me – scrive – c’è una sorgente molto profonda. E in quella sorgente c’è Dio. A volte riesco a raggiungerla, più sovente essa è coperta da pietre e sabbia: allora Dio è sepolto. Allora bisogna dissotterrarlo di nuovo3.
Sgombrando il campo dai detriti che ne ostruiscono l’accesso, il raccoglimento interiore permette di rigenerarsi direttamente alla sorgente della vita, così che possa fluire liberamente e condurre a un’esperienza del divino che oltrepassa gli istanti di preghiera per abbracciare il quotidiano nella sua interezza. Ed è nella natura che l’autrice ne vede chiara manifestazione, come annota in un passo dei Diari datato 25 giugno 1942:
Vorrei scrivere un intero libro su un sassolino di ghiaia e su un paio di violette. Potrei vivere molto a lungo con una singola pietruzza, e avere la sensazione di vivere nella natura potente di Dio. Ho scoperto solo ora che la pietruzza di ghiaia di quel pomeriggio sul tetto, nel sole, proveniva direttamente dai giorni della creazione, e la mia sorpresa per aver scoperto all’improvviso così tanta eternità in una pietruzza non si è ancora sgretolato fino a oggi4.
Così come il Dio a cui Hillesum rivolge le sue preghiere non è un Dio onnipotente, bensì “pezzetto” più profondo di noi stessi da accudire e proteggere5, così gli elementi naturali protagonisti della sua esperienza mistica rappresentano una natura fragile, simbolo di un’umanità ferita e impotente di fronte all’inevitabilità degli eventi.
La mia rosa tea sta appassendo tra la macchina da scrivere, un fazzoletto e un rocchetto di filo nero. E quasi insostenibilmente bella e tenera. Appassendo gentilmente, e con rassegnazione, si prepara ad abbandonare questa breve, fredda vita. È così tenera e amabile, e ha una tale grazia nella sua lenta morte che potrebbe facilmente spezzarmi il cuore. Ma bisogna lasciar morire in pace anche una rosa tea e non cercare fervidamente e disperatamente di trattenerla. In passato riuscivo a essere inconsolabile e inspiegabilmente triste per un fiore che appassiva. Ma bisogna imparare ad accettare anche l’appassire della natura, senza opporvi resistenza. E sapere che ci sarà sempre una nuova fioritura6.
L’esistere semplice della rosa rispecchia fedelmente l’attitudine della pensatrice rispetto alla miseria e all’odio dilagante del nazismo: come la rosa di Angelus Silesius essa “fiorisce, perché di sé non gliene cale, non chiede d’esser vista”7. Nessuna resistenza agli eventi, solo un sereno adeguarsi ai ritmi della natura, al suo susseguirsi di vita e di morte: solo una paziente attesa di una nuova fioritura.
Alle sette, quando la mia sveglia ha squillato e ho aperto gli occhi, la mattina era distesa, ampia come la vita, dentro la mia cameretta e dietro la finestra. La città era là sotto, potevo accorgermene dal rumore del tram; in lontananza si udiva il canto dei soldati. Ma tutto ciò che io vedevo erano nuvole e le cime fluttuanti degli alberi, raccolti in un largo cerchio attorno alla mia finestra, e poi c’è quell’unico albero che è soltanto mio. Stanotte una stella solitaria danzava attorno al suo tronco. Solo cielo e verde dietro la mia finestra e sotto, di tanto in tanto, piccoli rumori della città. […] Sulla strada verso casa sua mi sono imbattuta in rose rosso scuro che si arrampicavano sul muro di un’abitazione, una delle tante di una lunga fila, e volevo immediatamente cedere il mio cuore instabile a quelle rose, e poi, all’improvviso, ho visto molte violette lungo il muretto basso di un giardino. E più tardi ho chiesto a S.: non è quasi empio continuare a credere in Dio di questi tempi?8.
Lo scorcio che si apre dalla piccola cameretta dell’autrice lascia intravedere un paesaggio naturale che, pacifico e senza giudizio, interagisce con il terrore che si propaga in città. Nel frattempo, le rose rosse continuano ad arrampicarsi sul muro delle abitazioni e le violette continuano a fiorire; con la consapevolezza che esiste pur sempre uno “spazio interiore del mondo” che può trascendere il tempo, dove la natura contemplata, le nuvole, le stelle, gli alberi sono custoditi nella loro essenza di eternità, e dove la fede continua a nutrire i fiori appassiti, lasciando effondere il loro profumo in tutto il cosmo.
Un desiderio di silenzio. Ora il silenzio è tornato da me e io lo porto con me, continuamente. Devo dirlo a Liesl che afferma di sentirsi bene solo nella natura. Bisogna portare la natura dentro di sé, si può viverla in un fiore, in una nuvola, in una sensazione che ti scorre nelle vene. Una persona può racchiudere tutto in se stessa e portarselo dentro, è possibile. Ma non si possono sempre inseguire le cose, e non bisogna neanche esserne dipendenti9.
E ancora:
Il gelsomino dietro casa è completamente sciupato dalla pioggia e dalle bufere di questi ultimi giorni, i suoi fiori bianchi galleggiano qua e là sulle pozzanghere scure e melmose che si sono formate sul tetto basso del garage. Ma da qualche parte dentro di me esso continua a fiorire indisturbato, esuberante e tenero come sempre, e spande il suo profumo tutt’intorno alla Tua casa, mio Dio. Vedi come ti tratto bene. Non Ti porto soltanto le mie lacrime e le mie paure, ma Ti porto persino, in questa domenica mattina grigia e tempestosa, un gelsomino profumato. Ti porterò tutti i fiori che incontro sul mio cammino, e sono veramente tanti. Voglio che tu stia bene con me. E tanto per fare un esempio: se io mi trovassi rinchiusa in una cella stretta e vedessi passare una nuvola davanti alla piccola inferriata, allora Ti porterei quella nuvola, mio Dio, sempre che ne abbia ancora la forza. Non posso garantirTi niente a priori, ma le mie intenzioni sono ottime, lo vedi bene. E ora mi dedico a questa giornata. Mi troverò fra molta gente, le tristi voci e le minacce mi assedieranno di nuovo, come altrettanti soldati nemici assediano una fortezza inespugnabile10.
I fiori, le nuvole e tutti i doni che Hillesum, durante la preghiera, sceglie di portare a Dio sono fragili e delicati come il suo animo. È con il suo trasferimento al campo di smistamento di Westerbork che quella stessa interiorità sembra irradiare completamente la realtà drammatica del campo, rivolgendosi a una natura più ampia e maestosa, che ricorda proprio una “fortezza inespugnabile”: lo sguardo si sposta sul campo di lupini violetti che si estende al di là del filo spinato e sui gabbiani che volano tra le nubi grigie. In una lettera inviata da Westerbork il giorno 8 giugno 1943, scrive:
Miei cari,
non è rimasta molta brughiera dentro al recinto di filo spinato, le baracche diventano sempre più numerose. Ne è rimasto un pezzetto in un estremo angolo del campo, ed è lì che sono seduta ora, al sole, sotto uno splendido cielo azzurro e fra alcuni bassi cespugli. Proprio di fronte a me, a pochi metri di distanza, vedo un’uniforme azzurra e un elmo nella torretta di guardia sui pali.
[…] Dalle quattro di stamattina ho avuto di nuovo neonati e bagagli da portare. In quelle ore si potrebbe accumulare malinconia per una vita intera. […] La locomotiva manda un fischio terribile, tutto il campo trattiene il fiato, partono altri tremila ebrei. In quei vagoni merci giacciono diversi bambini piccoli con la polmonite. A volte è proprio come se ciò che accade non fosse affatto vero. […] Il cielo è pieno di uccelli, i lupini violetti stanno là così principeschi e così pacifici, su quella cassa si sono sedute a chiacchierare due vecchine, il sole splende sulla mia faccia, e sotto i nostri occhi avviene una strage, è tutto così incomprensibile11.
E ancora:
Ho sperimentato su me stessa che, se ogni settimana ci si lascia sballottare da tutte queste tensioni, dopo tre settimane si è distrutti, ma proprio completamente distrutti, e quando poi toccasse a noi partire in direzione di Mosca non saremmo più in grado di farcela. E così ora provo a vivere senza preoccuparmi di timbri verdi rossi blu e di liste di deportati, e di tanto in tanto faccio visita ai gabbiani, nei cui movimenti per i vasti cieli nuvolosi si indovinano leggi, eterne leggi di un genere diverso da quelle che creiamo noi uomini. Oggi pomeriggio Jopie, che ora si sente proprio malato e “distrutto”, e la sua commilitona Etty sono stati almeno per un quarto d’ora a contemplare i movimenti di uno di questi uccelli neri e argentei fra i nuvoloni azzurro scuro carichi di pioggia, e d’un tratto ci siamo sentiti l’animo assai meno oppresso12.
Le traiettorie percorse dai gabbiani rivelano leggi eterne, differenti dalle leggi imperfette create dagli uomini: incomprensibili alla nostra ragione poiché permeate da un eccelso mistero che lascia senza parole. Non si tratta dunque di conoscere, ma di ascoltare e sentire, di armonizzarsi ai ritmi della natura e - direbbe Raimon Panikkar – di abbandonarci, in quanto gocce d’acqua, al nostro essere “acqua della goccia”, lasciandoci cadere nell’oceano della Vita13.
Non vi è più necessità di comprensione, qualsiasi domanda si placa e si perde nella pienezza del semplice esistere.
Parole come Dio e Morte e Dolore ed Eternità si devono dimenticare di nuovo. Si deve diventare un’altra volta così semplici e senza parole come il grano che cresce, o la pioggia che cade. Si deve semplicemente essere14.
Note
1) Si veda: (M. G. NOCCELLI, Risonanze filosofiche dal pensiero e dall’itinerario spirituale di Etty Hillesum, S. Oreste Roma, Apeiron, 2004, pp. 22-30).
2) L’espressione, ripresa da Hillesum nei Diari, è tratta da una poesia di Rainer Maria Rilke intitolata: “Es winkt zu Frühling aus allen Dingen” (E. HILLESUM, Diari 1941-1943, a cura di J. G. Gaarlandt, tr. it di C. Passanti, T. Montone, A. Vigliani, Milano, Adelphi, 2012, p. 301).
3) Il passo citato prosegue così: “M’immagino che certe persone preghino con gli occhi rivolti al cielo: esse cercano Dio fuori di sé. Ce ne sono altre che chinano il capo nascondendolo fra le mani. Credo cerchino Dio dentro di sé” (Ivi, p. 115).
4) Ivi, p. 486.
5) L’espressione “pezzetto di Dio” fa riferimento a una pagina dei Diari in cui Hillesum scrive: “In me non c’è un poeta, in me c’è un pezzetto di Dio che potrebbe farsi poeta. In un campo deve pur esserci un poeta, che da poeta viva anche quella vita e la sappia cantare (Ivi, p. 585).
6) Ivi, p. 463.
7) A. SILESIUS, Il pellegrino cherubico, a cura di M. Vannini e G. Fozzer, Firenze, Lorenzo De Medici Press, 2018.
8) E. HILLESUM, Diari 1941-1943, p 501.
9) Ivi, p. 361.
10) Ivi, p. 532.
11) E. HILLESUM, Lettere 1941-1943, a cura di R. Cazzola, tr. it di C. Passanti, T. Montone, A. Vigliani, Milano, Adelphi, 2013, p. 56.
12) Ivi, pp. 77-78.
13) R. PANIKKAR, L’acqua della goccia. Frammenti dai diari, a cura di M.C. Pavan, Milano, Jaca Book, 2018, p. 9.
14) E. HILLESUM, Diari 1941-1943, p. 525.