di Maurizio Ambrosini in "Avvenire" del 18 dicembre 2024
A un primo sguardo, si dovrebbe dire che non sono tempi favorevoli ai migranti internazionali. Celebrare la loro Giornata internazionale appare inattuale, forse persino provocatorio. Il nuovo patto su immigrazione e asilo nell’Ue e l’elezione di Trump negli Stati Uniti fanno pensare a un inasprimento delle chiusure, con un’accresciuta enfasi su confini e sovranità nazionale. Il governo italiano contribuisce al panorama con reiterate misure restrittive, le ultime delle quali sono la crudele stretta sui ricongiungimenti familiari e la frettolosa chiusura preventiva a eventuali nuovi flussi di rifugiati dalla Siria, che dalle nostre parti non si vedono da anni.
Il ragionamento si fa però più complesso e intrigante se si guarda a ciò che molti governi stanno facendo, al di là e persino in contrasto con le loro politiche dichiarate. In sintesi, parlano di muri e richiamano braccia. Non solo lavoratori altamente qualificati e personale sanitario, ma anche comuni lavoratori, dai braccianti ai muratori, dagli addetti alla ristorazione alle assistenti familiari, dette riduttivamente badanti. L’ultimo rapporto Ocse parla di 6,5 milioni di nuovi ingressi nell’ultimo anno nel complesso dei Paesi sviluppati e lo spiega affermando che «una forte domanda di lavoro nei Paesi riceventi è stata un fattore chiave dell’immigrazione negli ultimi due anni». Ricordiamo che lo stesso governo italiano ha previsto 452mila ingressi regolari in tre anni, a cui ne ha aggiunti altri 10mila per attività domestiche e assistenziali con l’ultimo decreto-flussi.
Si potrebbe commentare: i governi predicano ostilità e chiusura, ma praticano accoglienza e inserimento.
Tutto sommato, sono più disponibili di quel che raccontano per compiacere un’opinione pubblica sfavorevole ai nuovi venuti, se poveri e diversi. La nuova accettazione dell’immigrazione per lavoro potrebbe costituire una materia d’intesa su un terreno terribilmente divisivo.
Ma la politica del doppio binario, che diventa triplo se ricordiamo la generosità verso i profughi ucraini, trascina con sé troppe contraddizioni e semina troppe trappole per la convivenza futura.
Ripercorre la strada autoingannevole dell’attrazione di manodopera dall’estero come se questa fosse priva di bisogni sociali, di relazioni familiari, di aspirazioni e progetti, come nella Germania e nella Svizzera degli anni ’60.
Condanna i lavoratori a una prolungata solitudine, come ha recentemente voluto il governo italiano, come se questo non pesasse sull’integrazione complessiva, e alla lunga sulla stessa efficienza lavorativa. Cerca di negare loro il diritto alla libertà di culto, se seguono religioni sgradite, e tenta in vario modo di discriminarli nell’accesso alle prestazioni sociali, come nel caso emblematico dell’edilizia pubblica. Anche la polemica, nuovamente rinfocolata, sulla presunta attitudine a delinquere degli immigrati, non diffonde di certo un’immagine positiva dei nuovi arrivati e non ne favorisce l’accettazione, quale che sia il loro ruolo economico. In sostanza questi lavoratori sono utili e relativamente ben accetti finché rimangono sul posto di lavoro, aziendale o familiare, ma diventano ingombranti e sgraditi quando escono, si trasformano in comuni residenti, aspirano a entrare a far parte della società locale.
La stessa integrazione che si domanda agli immigrati viene di fatto ostacolata quando si negano loro risposte a questi bisogni fondamentali: famiglia, libertà religiosa, casa, diritti. La grettezza politica ha un prezzo, che oggi pagano i diretti interessati, ma in futuro ricadrà su tutti noi, a partire dai quartieri urbani in declino in cui gli immigrati sono già e saranno malamente alloggiati. Se gli immigrati irregolari fanno paura e non si è in grado di espellerli, c’è una sola soluzione ragionevole: regolarizzarli e trasformarli in lavoratori. Potranno vivere in pace, rispondere ai bisogni dell’economia, pagare tasse e contributi.
La politica pensi al bene comune, nostro e loro, non a speculare sulle paure e sui nemici immaginari.