di Maurizio Ambrosini in "Avvenire" del 19 ottobre 2024
L’iniziativa governativa di avviare il dirottamento in Albania di una manciata di persone in cerca di asilo, mobilitando una nave militare con un equipaggio di una settantina di marinai, è naufragata al primo viaggio. Tanto clamore e i corrispondenti costi sono sfociati in un flop. Almeno per ora, perché di certo il governo Meloni non si darà per vinto, considerando l’investimento d’immagine e di risorse dedicato all’operazione.
L’ordine impartito alla nave Libra di dirigersi verso il porto di Schengjin appare però improvvido, poiché già era nota la sentenza della Corte di Giustizia europea: un paese non può essere definito sicuro, ammettendo però delle eccezioni. O è sicuro per tutti, o non lo è. Le schede tecniche allegate al decreto che definiva “sicuri” Egitto e Bangladesh, insieme ad altri venti paesi, queste eccezioni le contenevano.
Difficile d’altronde sostenere il contrario. L’Egitto dei casi Regeni e Zaki non poteva essere assolto a priori dai dubbi sull’effettiva garanzia dei diritti fondamentali. Neppure il Bangladesh, da cui venivano notizie di persone arrestate arbitrariamente e poi scomparse, nonostante il cambio di regime di poche settimane fa, poteva essere considerato al di sopra di ogni sospetto.
Dal canto suo, la magistratura ha il compito di convalidare i provvedimenti amministrativi entro 48 ore, e il giudice è chiamato a vagliarli con scrupolo soprattutto in casi come questo, che comportano una severa limitazione della libertà personale, volendo anzi predisporre il terreno per un diniego della richiesta d’asilo e un rapido rimpatrio. Ora, il tribunale di Roma si è pronunciato, dichiarando «l’impossibilità di riconoscere come “Paesi sicuri” gli Stati di provenienza delle persone trattenute», e quindi l’inapplicabilità della procedura di frontiera e del trasferimento in Albania dei malcapitati, stabilendone il diritto a essere condotti in Italia. È un duro colpo per l’ambizione di
aprire la strada a una nuova politica europea di restrizione del diritto di asilo, che aveva riscosso anche qualche interesse a Bruxelles e in altre capitali europee. Un interesse che ora appare per quel che era: imprudente, prematuro, dettato dal desiderio d’inseguire un facile consenso a spese di profughi inermi.
Va così in scena una nuova puntata del conflitto tra forze nazional-populiste e potere giudiziario. A quasi tre secoli dall’enunciazione da parte di Montesquieu del principio della separazione dei poteri, l’investitura basata sul voto viene tradotta nell’autoattribuzione di prerogative decisionali pressoché illimitate. Queste si traducono in primo luogo nell’inclinazione a comprimere il rispetto dovuto ai diritti umani che comunque spettano anche ai non-cittadini.
A questa deriva la magistratura in diversi casi si è opposta. Custode di norme costituzionali che non dovrebbero essere esposte alla fluttuazione degli esiti elettorali e delle maggioranze politiche, ha il compito di mantenere dritta la barra sul primato dei diritti fondamentali delle persone, compresi i naufraghi che chiedono asilo. Il fatto che il capo del governo attacchi apertamente magistratura e Ong su questa materia, basti pensare al processo Salvini-Open Arms, rivela a quale livello sta giungendo lo scontro. La fermezza dei magistrati va però sostenuta dall’azione di una società civile attenta e impegnata, oltre che nell’aiuto diretto, nella protezione dei diritti di coloro la cui voce è troppo debole per essere ascoltata.