di Stefano Allievi   

Insieme a tutti i colleghi e le colleghe che ne fanno parte, ho rassegnato al ministro Piantedosi le dimissioni dal Consiglio per l'islam italiano. Un atto ininfluente, certo, ma che era necessario e giusto compiere. Per chiarezza.
Per molti anni insieme ai colleghi e alle colleghe del Consiglio, e in collaborazione con le organizzazioni islamiche italiane, abbiamo lavorato – con grande dispendio di tempo, gratuitamente, e spesso a spese nostre – per cercare di svolgere con la professionalità e anche la passione civile necessaria il nostro ruolo di consulenti, elaborando pareri e promuovendo iniziative, sulla base della nostra conoscenza della situazione e delle esperienze di altri paesi europei.

Un ruolo di facilitazione e di aiuto che in un mondo ideale non avrebbe nemmeno dovuto essere necessario: come per altre confessioni religiose, lo Stato avrebbe dovuto confrontarsi direttamente con i rappresentanti delle comunità. Ma non siamo – né in Italia né altrove – in un mondo ideale, e temiamo che la necessità di qualche organismo specifico, quale che sia, che si occupi con contezza dei fatti di favorire i processi di inclusione dei musulmani, sarà necessario ancora per un po’, visto che lo Stato non riesce nemmeno a fare il passo di riconoscere la personalità giuridica di organizzazioni musulmane che sono presenti da decenni nel paese, in cui molti dei loro rappresentanti sono pure cittadini italiani, e nei confronti del riconoscimento dei quali persino organismi istituzionali come il Consiglio di Stato hanno espresso parere favorevole.
Quella islamica è, per dimensioni, la più cospicua delle minoranze religiose. Dovrebbe, quindi, essere quella nei confronti della quale maggiore ci si aspetterebbe essere l’attenzione e l’interesse a costruire relazioni positive. Che andrebbero a vantaggio delle comunità, ma anche dello Stato, che ha tutto l’interesse a promuovere un contesto di collaborazione, per motivi di principio (di rispetto delle proprie stesse leggi), di maggiore integrazione, ma anche di sicurezza, pure tanto spesso evocati.
I musulmani ormai sono alla seconda e anche alla terza generazione, moltissimi sono nati in Italia e in numero sempre maggiore sono cittadini italiani. È semplicemente controproducente che non si voglia e quindi non si riesca a innescare un processo che, come per tutte le altre minoranze religiose, possa portare a un’Intesa, che funga da reciproco riconoscimento e garanzia del rispetto delle leggi e del patto sociale.
Purtroppo, dopo alcuni passi avanti, la nostra attività si è fermata: non certo per volontà del Consiglio né tanto meno dei rappresentanti dell’islam italiano. Semplicemente, è mancata la volontà politica di andare avanti. Tanto che il Consiglio, che aveva delle proposte concrete già elaborate (dallo statuto degli imam ai percorsi per il riconoscimento dei luoghi di culto) e altre in divenire, non ha più avuto un interlocutore. L’ultima volta siamo stati convocati oltre un anno fa, nel luglio 2023, e non abbiamo nemmeno potuto interloquire con il ministro dell’Interno, che era il nostro interlocutore abituale, data la sua responsabilità in materia di sicurezza e di affari dei culti, ma che non ha ritenuto di essere presente. Al suo posto abbiamo potuto solo incontrare una sottosegretaria non particolarmente interessata né informata dei dossier relativi. Dopodiché, il silenzio.
Tutto questo ha reso inutile la nostra presenza. In un momento in cui, peraltro, si sono accentuati i problemi sul terreno, e non per responsabilità delle comunità islamiche: chiusure illegittime di luoghi di culto musulmani a livello locale, normative discriminatorie a livello regionale, interventismo invasivo dei ministeri preposti nei confronti di decisioni riguardanti le scuole, proposta di un DDL anti-moschee promosso dallo stesso partito della premier.
Con la svolta anche culturale sancita dal governo Meloni e dalle idee sull’islam e i musulmani portate avanti da alcuni dei suoi esponenti di punta (fino a recuperare e legittimare un vocabolario che va dalle radici cristiane – usate in chiave oppositiva, non propositiva, escludente e non includente – alla sostituzione etnica), tutto ciò non è che ancora più evidente e manifesto.
Necessarie, quindi, e doverose le nostre dimissioni. Spero che serviranno al governo a promuovere un organismo e delle azioni che possano essere utili e incisive. Nel caso, non potrò che rallegrarmene. Me ne vado, e ce ne andiamo, con la consapevolezza che un domani non molto lontano ci sorprenderemo della miopia delle scelte o delle mancate scelte fatte, e di quanto atti banali e ordinari, peraltro attuativi della nostra Costituzione, abbiano suscitato resistenze e controversie che capiremo essere uno svantaggio per tutti. Ma a quel punto, a occuparsi di queste questioni ci sarà qualcun altro. Quello che è accaduto merita di essere considerato davvero il passato. Il futuro delle relazioni con l’islam italiano è ancora tutto da costruire.