di Gianni Tognoni*

Il quando e il dove della domanda posta dal titolo
Come spesso succede, e questa volta la sottolineatura preliminare è obbligatoria, l’esplicitazione del contesto è imprescindibile per entrare e soprattutto condividere o meno la sostanza di quanto si vorrebbe dire. Il collegamento tra le tre componenti del contesto che vengono presentate nei punti che seguono potrebbe sembrare difficile, ma descrive perfettamente la situazione in cui si colloca la domanda del titolo generale di questo contributo:

la frontiera sempre incerta tra la durezza del reale e la surrealtà delle sue interpretazioni:

  1. lo scenario di fondo (accuratamente minimizzato dai media ma perfettamente visibile e intollerabile dal punto di vista della "civiltà") dei giorni (infiniti) che coincidono con la scrittura di questa riflessione è quello del "genocidio in corso" contro il popolo dei migranti: il "teatro" di respingimenti che coinvolge anche l’Italia ha come territorio geopolitico i paesi-popoli dei Balcani (Slovenia, Croazia, Bosnia) nei quali un altro genocidio si era consumato meno di trent’anni fa in una realtà che continua a essere qualificata con un ex (Jugoslavia) che sembra volerne cancellare la memoria;
  2. in uno di questi giorni nei quali non ci sono parole per esprimere la nausea-rabbia-impotenza per lo scenario appena descritto, un protagonista della vita politica italiana (Salvini), simbolo-espressione di tanta parte di quella europea e di quella (in chiusura?) USA, traveste-irride il suo essere imputato in un tribunale paradigmatico come quello dell’Ucciardone a Palermo mettendo sulla sua mascherina, che aveva appena inneggiato a Trump, l’immagine di Borsellino;
  3. il 18 dicembre 2020, a Berlino è stata letta e presentata al governo tedesco e all’Unione Europea (ancora a guida tedesca, al di là della presidenza tedesca della Commissione) l’ultima della serie di sentenze del Tribunale Permanente dei Popoli (TPP) sul "genocidio in corso", crimine contro l’umanità, commesso contro il popolo dei migranti e rifugiati, con la piena responsabilità, da parte dell’Unione Europea e dei suoi Stati membri. Nel  tempo tra la sessione pubblica del TPP, 23-25 ottobre 2020, che aveva documentato con testimoni, rapporti, analisi tutti i fatti pertinenti (che già includevano le prime fasi dello scenario del punto a, e quelli tanto simili al di là della diversità "nominale" degli attori, di Lesbo, Libia, Mediterraneo…) e la lettura della sentenza, l’UE aveva pubblicato la sua piattaforma sui migranti: inquadrata da parole solenni, era però molto chiara nell’affermare che di fatto le responsabilità non c’erano, perché non c’era il problema, solo incidenti di percorso, senza colpevoli, impunibili perciò, perché prodotto casuale della complessità. L’UE dice che non c’è nulla da cambiare.

Il contesto sostanziale
Il popolo dei migranti-rifugiati racconta la verità sul tempo che viviamo: con la tragicità del suo genocidio, rappresenta, nella sua anonima trasversalità, tutti i popoli la cui esistenza come soggetti titolari di diritti inviolabili è "semplicemente" negata, senza tanti ragionamenti: scartata dall’agenda delle priorità della comunità internazionale degli Stati, perché incompatibile con la logica dei modelli e degli algoritmi che guidano lo sviluppo (prima, durante, dopo il Covid).
Il popolo dei migranti non ha di fatto un nome specifico; è in questo senso "universale", nel senso previsto solennemente nell’incipit del preambolo della Dichiarazione Universale dei Diritti Umani: “Noi, popoli della terra …”. Essere umani è l’unica identità che conta per essere titolari degli stessi diritti. Era anche l’unico modo di concludere i suoi rapporti da Gaza bombardata dall’operazione “Piombo Fuso” da parte di Vittorio Arrigoni: "restiamo umani’": “le due parole di Vittorio sono il più grande contributo italiano dato alla dottrina e alle lotte di liberazione del nostro tempo”, è stato detto. L'affermazione di portata universale delle due parole (i suoi nomi concreti, che vogliono camminare nella storia sono tanti: ni una menos, Black Lives matter, Fridays for future…) è un'"eredità" obbligatoria di un tempo che si vorrebbe considerare concluso: è infatti considerata "terrorista" dalla globalizzazione, che non prevede che la storia, le vite concrete, l'infinita diversità dei progetti degli umani possano "contare", aver peso nei suoi algoritmi. Gli umani, formalmente ed esplicitamente sono una "variabile  confondente". Diventano gestibili solo se diventano cittadini degli algoritmi e del mondo che compra e vende merci, di ogni tipo, purché  possano essere assegnati a una delle categorie classiche della storia economica e politica della "civiltà": dalla schiavitù-traffico-stupro, al lavoro non protetto, all'esclusione sociale, al destino permanente di una non-cittadinanza…
In questo senso, il comportamento dell'UE evocato al punto c del paragrafo precedente ha una sua coerenza, banale e perciò ancor più tragica: dichiara infatti una sua non-competenza in umanità, e dice una verità, che non è altro di fatto che un togliere un velo; il richiamo ai valori di civiltà dell’Europa non si nega, (senza poterlo dichiarare troppo apertamente, perché stonerebbe troppo) ma lo si considera come di un ordine "altro" rispetto a quello ufficiale delle Commissioni. Queste sono competenti in economia, rispondenti cioè a un'altra dimensione e giurisdizione, autonoma, ma a livello operativo gerarchicamente prevalente rispetto a quella che considera gli umani non come un oggetto di decisioni, ma soggetti titolari e destinatari di diritti universali inviolabili.
In fondo, la cosa è molto evidente, perfino nel Covid. I tanti morti (come in una guerra mondiale) non contano nel decidere gli interventi. Per centinaia di miliardi, o trilioni , ci si può impegnare a finanziare il futuro se si presentano progetti di investimenti strutturali e produttivi di valore traducibili in "indicatori" economici. Rispetto a questi la vita degli umani e dei loro rapporti di relazione, anche con la natura e l’ambiente, è considerata con una malcelata "sufficienza2. Per la letteralmente "nuda vita" dei migranti - come per la dignità delle vite degli anziani nelle RSA o per i senza tetto nelle città e nelle zone rosse del mondo in tempi di Covid - vale l’economia dell'elemosina, qualche decina di milioni di euro ogni tanto, per sentirsi, se non per essere o almeno apparire, rappresentanti di una civiltà con una lontana e approssimata memoria di universalità. 
Ma se tutto questo è normale, e ben stabilito, tutto può essere permesso. 

Il Tribunale Permanente dei Popoli: un racconto della storia dalla parte dei popoli
Gli scenari sopra ricordati sono lo specchio ben noto, descritto, dibattuto nella letteratura e nelle politiche da tanti anni, attraverso un processo e uno sviluppo che coincide (con passi, espressioni, implicazioni diverse) con una storia che ha poco più di 40 anni. Il suo racconto - dall’interno, non da osservatori-storici, ma da attori resistenti - coincide con una testimonianza-lotta che ha il suo manifesto e il suo strumento di lavoro nella Dichiarazione Universale dei Diritti dei Popoli, ad Algeri, nel 1976. Si è al centro del movimento dei "non-allineati", mentre termina formalmente il tempo coloniale (sono del 1975 la vittoria del Vietnam, la fine delle colonie portoghesi africane e asiatiche…). Il tempo delle speranze è definito lucidamente, fin dal preambolo della Carta d’Algeri, anche come quello di incertezze, sfide, scenari, protagonisti che non hanno la "normale" novità di una storia che cambia nel suo camminare complesso. Il Tribunale Russell 2 sulle dittature latinoamericane, appena finito con le sue tre Sessioni, aveva dato una lettura molto drammatica della trasformazione del mondo che dopo la seconda guerra mondiale si era dato un orizzonte di diritti universali. Di  fronte a violazioni tragiche del diritto di tutto il continente latino-americano all'autodeterminazione da parte di alleanze e poteri economici e militari, la comunità internazionale degli Stati aveva risposto con un sostanziale silenzio-connivenza, anteponendo gli interessi dei poteri economici e militari, crescentemente privati (nascono allora le multinazionali), ai diritti umani e dei popoli. Si profila il tempo non-umano dei desaparecidos. Gli umani - non pochi, decine di migliaia - possono scomparire in Argentina, in Guatemala… La liberazione come espressione della dignità e del futuro dei popoli (la sua teologia, la sua "gioia-speranza", il  suo essere anticipo e strumento di una "pace sulla terra"…, per riprendere linguaggi e termini di riferimento che entravano anche nel linguaggio comune…) incominciava a essere considerata "fuori legge".
Il Tribunale Permanente dei Popoli nasce come strumento concreto per dire no a un capovolgimento delle strutture portanti della storia che si erano affermate e consolidate con tante lotte: non come protesta, ma come partecipazione a un tempo, che aveva sempre più bisogno di un'alleanza strettissima tra le resistenze, armate o meno, sul campo, e un lavoro dottrinale e culturale capace di farsi carico dell'elaborazione di nuove categorie e definizioni. Non si può accettare un ordine che pretende di essere legale, e perciò vincolante, anche se illegittimo: contrario cioè ai principi e ai valori fatti identitari per una civiltà che aveva detto "mai più", non solo alla guerra come strumento di governo, ma anche a tutti i comportamenti riconducibili (che fossero da parte di attori pubblici o privati) alla categoria "sistemica", simbolica e insieme perfettamente espressiva delle implicazioni concrete per la civiltà stessa, di "crimini contro l’umanità".

Attualità del TPP?
L’interrogativo è d’obbligo. La storia del TPP nei suoi fili essenziali, e con la documentazione dettagliata dei suoi casi più rilevanti che toccano esplicitamente lo sviluppo e le implicazioni del conflitto tra le ragioni dell’universalità dei diritti umani e quelle della globalizzazione delle merci, è  narrata in un libro che nel titolo esplicita i due poli attuali della sfida di civiltà: Diritti dei popoli e disuguaglianze globali  (Ed Altreconomia, 2020).
Non ha senso, al di là dello spazio, tentarne un riassunto. Nei più di 40 "casi" nei quali i popoli diventano, con la loro parola-coscienza-presenza-proposta di futuro si ritrova, letteralmente la storia di un mondo uscito dal tempo post-coloniale, ma che vive oggi, sempre più strutturalmente, in un tempo-progetto neo-coloniale. Nella logica del TPP e dei popoli la storia ha sempre  radici profonde nella quotidianità delle repressioni, ma con la coscienza acuta di un permanente "non ancora". Il giudizio più certo sulla  illegittimità e la violenza della impunità coincide con il garantire visibilità, diritto di parola, linguaggio per circolare e comunicare al diritto fondante di tutti gli altri affermati nella Dichiarazione Universale dei Diritti Umani: quello di cui si è, collettivamente, rappresentanti: il diritto di sognare e lottare perché i diritti affermati possano essere ‘attribuiti’, diventare vita e dignità, per tutti gli umani.
Le tante richieste che arrivano, ancora adesso, dopo tanti anni e tanti casi, per essere adottate e diventare oggetto di attenzione prioritaria dalla "tribuna" del TPP, coincidono con i vuoti di diritto di cui è sempre più densa una società, che (è la "verità" svelata anche dal Covid, e narrata in modo definitivo dalla solitudine di Francesco nella piazza S. Pietro del 27 marzo) nella sua pretesa compattezza globale, è infinitamente frammentata e divisa. Il mosaico dei tanti pezzi della  "guerra mondiale" in corso, cui Francesco ha dato tanti nomi, con  gli orizzonti e il linguaggio della franchezza, al di là dei contenuti, delle sue encicliche e discorsi, ai movimenti e ai giovani economisti, è lo scenario di un nuovo  progetto di resistenza e di liberazione che è la sola via di uscita, difficile, di lungo periodo, obbligato, per gli umani, e la loro casa comune.
Nel suo piccolo, e con la testardaggine della sua memoria che raccoglie le testimonianze e le speranze di tanti popoli, il TPP continua a sostenere che proprio in questi tempi, che rendono "normali" comportamenti in-umani e si programmano in termini di poteri e destini post-umani, le lotte per la dignità della vita nel pianeta devono essere pensate come una ricerca che vede nei popoli-movimenti (i loro nomi sono/saranno diversi) i soggetti inviolabili: nonostante e al di là di tutte le negazioni e le impunità che si esprimono al massimo grado nel pretendere di renderli invisibili, muti, scartati.

*Segretario Generale del Tribunale Permanente dei Popoli