di Gabriele Blasutig 

Diventare diseguali
Si potrebbe cominciare queste pagine di riflessione e analisi sulle disuguaglianze con una frase che è più di un gioco di parole: differenti si nasce, disuguali si diventa. Ci sono svariati aspetti e caratteristiche che rendono gli individui differenti gli uni dagli altri, fin della nascita. Si tratta di elementi soggettivi, come il sesso, i tratti somatici, il temperamento, e di fattori ambientali, come la famiglia di origine e il luogo di nascita.

La dotazione di questi caratteri “ereditati”, o ascritti, influenza inevitabilmente la vita delle persone, specie nelle fasi iniziali. Ad esempio, i riferimenti professionali, le risorse economiche e le basi culturali dei genitori orientano i percorsi di istruzione dei figli. Analogamente, le opportunità occupazionali offerte dal territorio di appartenenza condizionano le prime tappe nel mondo del lavoro. 
Ma le biografie personali si diramano, differenziandosi, anche in base a elementi acquisiti nel corso della vita. In parte, questi sono il frutto dei comportamenti individuali, basati su scelte, motivazioni e sforzi personali. Ad esempio, il successo scolastico o quello lavorativo richiedono un certo investimento, in termini di impegno, dedizione e sacrificio. Intervengono, però, anche fattori non ascrivibili ai soggetti ma al loro campo d’azione, strutturato su due livelli: uno micro, dato dai meccanismi di interazione con una pluralità di interlocutori (insegnanti, amici, partner, colleghi di lavoro, datori di lavoro, ecc.); uno macro, corrispondente ai funzionamenti generali della società. Questa mette a disposizione dei propri membri un’ampia gamma di risorse e regola – attraverso istituzioni formali e informali – l’accesso a tali risorse, i diritti di proprietà, gli scambi, le forme di convivenza, i diritti civili e sociali.
Questo insieme di differenze – ereditate o acquisite, relative ai soggetti o relative ai contesti, riferibili a livelli micro o macro – si compone e ricompone nel corso della vita di ognuno. A seconda di come si sviluppa tale processo combinatorio (Nussbaum 2003), alle persone è concessa la possibilità di perseguire e realizzare ciò che le fa stare bene. Attorno a questa fondamentale possibilità, definita «capacità» dall’economista e filosofo Amartya Sen, si stringe il nodo della disuguaglianza. Proprio qui risiede il senso della frase proposta in apertura: differenze di tipo ascrittivo (come il colore della pelle, il genere o l’origine sociale), astrattamente trattabili come categorizzazioni orizzontali e neutre, si traducono in maggiori o minori livelli di benessere, sicurezza, chances di vita e margini di libertà d’azione (agency) per le persone che condividono quelle caratteristiche, in relazione anche alle condizioni «capacitanti» o «incapacitanti» offerte dal contesto sociale e istituzionale di riferimento (Bifulco e Mozzana 2011). 

Multidimensionalità e costruzione “dal basso” delle disuguaglianze
Dire che la diseguaglianza è il risultato di percorsi ramificati e complessi, implica la necessità di riconoscere la sua natura multidimensionale. Ci sono tanti e sfumati modi di essere e di sentirsi diseguali. Il sociologo svedese Göran Therborn lo sostiene espressamente, aprendo il suo influente saggio sul tema: è semplicistico ricondurre la disuguaglianza soltanto «alla misura del portafoglio» (2016, 1). Ne vanno invece riconosciute le diverse espressioni che l’autore riferisce a tre principali dimensioni: a) la disuguaglianza vitale, riguardante gli stati di salute e integrità fisica, oltre che di equilibrio psicologico ed emotivo (contrapposto agli stati di nevrosi, stress e ansia); b) la disuguaglianza delle risorse, concernente la disponibilità o le possibilità di accesso a un insieme di “beni”, materiali e immateriali (beni d’uso, risorse economiche e occupazionali, servizi, informazioni, conoscenze, relazioni, tempo libero, beni ambientali, ecc.); c) la disuguaglianza esistenziale, inerente aspetti più simbolici, espressivi e intimi, correlati al grado di autonomia e autodeterminazione, al riconoscimento, al rispetto e alla dignità della persona in quanto tale, in assenza dei quali intervengono situazioni di discriminazione, umiliazione e perdita di autostima. 
Inoltre, l’idea della disuguaglianza come processo combinatorio costringe a rivedere le letture tradizionali che riconducono univocamente il fenomeno a fattori strutturali che calano dall’alto e dominano, per così dire, i soggetti e le pratiche sociali: la struttura di classe di una società, la stratificazione della forza lavoro, la distribuzione della ricchezza e del reddito, l’intervento regolativo dello Stato, l’assetto del sistema di welfare, la composizione della popolazione per livello di istruzione, ecc. In un’acuta analisi su come sia cambiato questo fenomeno negli ultimi trent’anni, Dubet (2010), pur riconoscendo l’importanza della summenzionata cornice strutturale, sostiene la necessità di analizzare la disuguaglianza anche alla luce dei movimenti concreti di costruzione sociale dal basso che si esplicano attraverso la composizione per aggregazioni successive delle pratiche sociali. 
Solo così è possibile capire, ad esempio, perché le donne sono discriminate, in confronto ai maschi, in merito alla possibilità di collocarsi in posizioni apicali nelle organizzazioni, a prescindere dalla classe sociale di appartenenza e dal livello di istruzione. Va considerata la combinazione delle forze e dei meccanismi intervenienti, relativi ai soggetti, alle loro logiche e ai contesti d’azione: le scelte scolastiche delle donne, i loro atteggiamenti rispetto alla carriera lavorativa, i problemi di conciliazione tra lavoro e vita personale, la disponibilità di servizi di supporto alla genitorialità, la regolazione fornita dal diritto del lavoro e dalle relazioni industriali, le discriminazioni da parte di colleghi e datori di lavoro, i rapporti e le culture di genere, ecc. Un altro esempio è fornito dallo stesso Dubet (ibidem, 54), riferendosi alle disuguaglianze relative ai risultati scolastici dei più giovani. Anche qui intervengono in forma combinata molteplici elementi: i condizionamenti della famiglia, le inclinazioni, le motivazioni e le aspirazioni personali, l’organizzazione delle attività scolastiche, l’esercizio del ruolo da parte dei docenti, i funzionamenti e le configurazioni dei sistemi di relazioni tra pari, l’intervento dei servizi di orientamento, i dispositivi per il diritto allo studio, ecc.

La disuguaglianza economica 
La declinazione in chiave economica della disuguaglianza corrisponde, da sempre, alla lettura più immediata e più presente nel dibattito. Negli ultimi anni, anche per effetto della recessione innescatasi nel 2008, sono usciti diversi libri con questo taglio analitico, alcuni dei quali sono diventati dei best seller (Stiglitz 2012; Piketty 2013). Questi studi dimostrano, in base a molteplici indicatori, che la disuguaglianza economica ha ricominciato a crescere sul finire del secolo scorso, sia su scala mondiale sia all’interno dei paesi avanzati, dopo aver conosciuto una lunga fase di progressiva riduzione, dall’inizio del Novecento. Si sta così delineando un «capitalismo oligarchico» (Franzini e Pianta 2016) in cui la ricchezza e i redditi si concentrano in una ristretta élite di super ricchi: imprenditori di successo, top manager, professionisti affermati, star dello spettacolo, dei media e dello sport.  Di pari passo, non solo si verifica ovunque un’ulteriore deriva delle classi più disagiate (misurabile in termini di povertà relativa e assoluta), ma si profila anche un deciso indebolimento delle condizioni di benessere e sicurezza per le cosiddette classi medie (ibidem). 
Queste evoluzioni appaiono estremamente problematiche in primis in base a principi di giustizia ed equità sociale. Desta indignazione e sconcerto il fatto che la ricchezza posseduta dall’1% più ricco della popolazione mondiale pareggi quella posseduta dal restante 99% dell’umanità (Oxfam 2015). A questo si aggiunge l’evidenza non solo degli effetti deleteri sul grado di coesione sociale (Stiglitz 2012), ma anche delle conseguenze depressive sulla crescita economica (Franzini e Pianta 2016). 
Alla base di questo stato di cose ci sono fattori strutturali ampiamente discussi in letteratura (ibidem). Qui è possibile solo richiamarli: la finanziarizzazione e la globalizzazione dell’economia; la disintegrazione delle imprese e l’emergere di nuove strutture organizzative a rete (e vieppiù deterritorializzate); le nuove tecnologie applicate alla produzione, alla gestione dei processi e ai sistemi di comunicazione; la deregolazione dei rapporti di lavoro (dovuta principalmente alla modificazione dei rapporti di forza tra capitale e lavoro); l’arretramento dell’intervento “riequilibratore” dello Stato, anche in seguito all’affermazione delle ideologie liberiste. Naturalmente, la presenza di questi fattori varia nei diversi contesti in funzione degli assetti istituzionali. Considerando i paesi a sviluppo avanzato, si esprime al massimo grado in quelli anglosassoni, mediamente nell’Europa continentale e mediterranea, limitatamente nei sistemi del Nord Europa. 
Il combinato disposto di queste dinamiche strutturali ha come principale punto di crisi il lavoro: un lavoro che manca, che viene pagato poco (o non adeguatamente, in considerazione dell’aumento della produttività e dei profitti), che è instabile e che è sempre più polarizzato tra occupazioni centrali e occupazioni marginali. I giovani sono la categoria sociale probabilmente più colpita. Tanto che oggi la disuguaglianza economica assume sempre più le vesti di una disuguaglianza intergenerazionale che non risparmia i ceti medi. In Italia questo fenomeno è particolarmente evidente, in base a svariati indicatori: tassi di disoccupazione e precarizzazione del lavoro giovanile senza precedenti, dipendenza cronica dalla famiglia d’origine, difficoltà a costruire carriere lavorative solide (anche per i giovani più istruiti), ripresa dei fenomeni migratori, posticipazione delle scelte di vita legate alla costituzione di un proprio nucleo familiare. 

Aspetti emergenti
A partire da questo quadro generale, peraltro significativo, va riconosciuto che fermarsi a una lettura riferita agli esiti economici e ai fattori di ordine strutturale, considerando gli effetti di distanziamento, o di scivolamento, per alcune classi o categorie sociali, limita le capacità non solo di piena comprensione del fenomeno, ma anche di intervento volto a ridurne la portata. Un modo per superare questo limite è quello di assumere la prospettiva micro richiamata in precedenza, osservando da vicino gli attori, i campi d’azione in cui operano, le interazioni e le pratiche sociali a cui danno vita, il senso e il significato che attribuiscono alla propria condizione. In altre parole, ciò significa valorizzare, analiticamente e operativamente, la dimensione della soggettività, ponendo al centro le persone, considerate nella loro pienezza, complessità e unicità. È possibile così illuminare aspetti, in buona parte emergenti, che altrimenti resterebbero nella penombra. A questi è dedicata l’ultima parte di questo contributo, proposta con intento esemplificativo e senza pretesa di esaustività.
Una prima possibile evidenza, ricavabile da un’osservazione ravvicinata del fenomeno, riguarda il fatto che la disuguaglianza, coinvolgendo sempre più anche le classi medie, si esprime in maniera peculiare rispetto al passato, essendo vissuta, in questo caso, non come un destino (implicato dall’origine sociale), ma come un rischio incombente, di grave perdita delle posizioni acquisite. La crescente esposizione a tale rischio è legata in primis ai fattori strutturali descritti in precedenza (in particolare la precarietà occupazionale). Ma il vissuto di forte incertezza è alimentato anche da fenomeni sociali emergenti come, ad esempio, la crescente instabilità dei rapporti affettivi, la ripresa della mobilità territoriale, l’assottigliamento del “capitale sociale” da cui trarre le necessarie risorse di solidarietà e aiuto (Ranci 2008). La dimensione vitale della disuguaglianza, ricordata in precedenza, viene particolarmente investita da queste dinamiche, soprattutto con riferimento all’impatto sull’integrità psicologica ed emotiva degli individui (testimoniata, in qualche misura, dall’uso crescente degli psicofarmaci). In più, sono evidenti i condizionamenti negativi rispetto a scelte di vita fondamentali, come quelle di costituire una famiglia e di mettere al mondo dei figli. Il problema della denatalità, particolarmente avvertito in Italia, è una delle conseguenze di questi processi.
Una seconda osservazione riguarda la necessità di rivedere criticamente l’usuale impiego di grandi categorie per strutturare le basi sociali della disuguaglianza: residenti in aree svantaggiate, immigrati, donne, giovani, anziani, disabili, ecc. Come sottolinea Dubet (2010), siccome i profili sociali sono compositi, le categorie generali sono sempre molto disomogenee al loro interno, rispetto alla natura della disuguaglianza, ai meccanismi che la determinano e ai vissuti delle persone. Si rendono pertanto necessarie letture “a grana fine” del fenomeno, basate su più precise profilature delle categorie sociali e dei fattori di svantaggio (e discriminazione). In questo modo, è possibile rilevare gli effetti distorsivi di interventi “sparati nel mucchio”, come, ad esempio, quelli di sostegno all’occupazione dei giovani, attraverso l’usuale formula degli incentivi all’assunzione. Misure di questo tipo rischiano di amplificare le disuguaglianze interne a tale categoria, avvantaggiando ulteriormente componenti già favorite dal mercato del lavoro, per esempio, i profili dei diplomati o laureati in indirizzi tecnici, molto richiesti dalle imprese. Sarebbero invece necessari interventi mirati, ad esempio, verso i giovani in possesso delle cosiddette “lauree deboli” a cui rivolgere azioni dedicate di sostegno occupazionale, orientamento, integrazione delle competenze, promozione e accompagnamento in azienda (Blasutig 2012).
Un’ulteriore possibile osservazione concerne gli effetti di amplificazione sul piano simbolico delle disuguaglianze, legati alla dimensione esistenziale menzionata in precedenza. Molti osservatori rimarcano i processi di individualizzazione della nostra società (Bernardi 2009). Ciò non significa solo che ciascuno è artefice del proprio destino. Ma implica anche una marcata enfasi valoriale su elementi come i meriti individuali, l’imprenditività, il successo, il talento, l’eccellenza. Tutti aspetti su cui, tra l’altro, i social media fungono oggi da potenti casse di risonanza e amplificazione. Appare verosimile l’ipotesi che questa cornice culturale, combinata con quella strutturale, generi l’effetto di un ulteriore distanziamento, sul piano simbolico, tra i pochi che “ce la fanno” e i tanti che si muovono in posizioni di rincalzo o retroguardia. Soprattutto in giovane età, questo può innescare nei soggetti più vulnerabili un senso di sconfitta preventiva, di impotenza e frustrazione che possono deprimere a priori le energie motivazionali e lo spirito acquisitivo, inducendo così atteggiamenti di rassegnazione, disattivazione e inerzia vitale. Il noto fenomeno dei cosiddetti NEET[1] appare per molti versi legato a queste dinamiche.
Un ultimo spunto di riflessione può essere tratto dall’analisi ravvicinata della condizione di disuguaglianza vissuta dai soggetti portatori di disabilità. L’approccio tradizionale fondato su misure standardizzate di assistenza e sostegno appare vieppiù carente, se non inadeguato, perché pone questi soggetti in una posizione di passività, rendendo permanenti, sul piano simbolico ed esistenziale, gli effetti della loro disabilità. L’analisi della realtà empirica, in particolare osservando i tanti casi di buone pratiche (ad esempio, quelli raccontati dal blog invisibili.corriere.it) che vedono protagonisti questi soggetti e il mondo che ruota attorno a essi (in particolare le organizzazioni di volontariato e del terzo settore), fa emergere con chiarezza la componente espressiva delle loro istanze. Emerge sempre più una domanda di riconoscimento, normalizzazione, emancipazione e valorizzazione che fa leva su un ruolo autonomo, attivo e acquisitivo dei disabili, sulla rimozione selettiva dei fattori contestuali di svantaggio e discriminazione, sulla scoperta e il rafforzamento delle “capacità” personali, relazionali e di sistema. 

In conclusione: indicazioni generali sulle cose da fare
Giunti a questo punto, si aprirebbe l’ampio capitolo delle cose da fare. Per ragioni di spazio è possibile trarre dalla discussione precedente solo alcune indicazioni molto generali. Un fenomeno complesso come la disuguaglianza richiede risposte articolate, capaci di intervenire su diversi livelli e con diverse logiche d’azione. In prima battuta, la dimensione economica del fenomeno rende necessario misurarsi con i sistemi istituzionali di regolazione per ridurre i fattori strutturali che ne determinano le dimensioni e l’impatto (Franzini e Pianta 2016). È necessario poi elaborare soluzioni efficaci e sostenibili di protezione economica di ultima istanza per le categorie sociali più vulnerabili, con misure che vengono proposte da più parti, e parzialmente già praticate, seppure con diverse formulazioni e logiche, desumibili anche dalla varietà di nomenclature utilizzate: reddito “minimo”, “di cittadinanza”, “di inclusione”, “di partecipazione”, ecc. (Atkinson 2015).
Tuttavia, l’approccio regolativo e quello redistributivo non sono probabilmente sufficienti. In precedenza si è sostenuto che il fenomeno prende corpo sul terreno dei significati soggettivi, dei processi e delle pratiche sociali. Gli interventi vanno conseguentemente sviluppati anche su questo livello. Tre sono i principi guida che sembrano emergere della letteratura a tal proposito. Il primo, come già accennato, riguarda la necessità di mirare gli interventi su gruppi bersaglio attentamente profilati. Il secondo è basato sulla logica dell’attivazione (Lodigiani 2008), da intendersi come strategia non solo per responsabilizzare i destinatari degli interventi, ma anche per “capacitarli”, cioè renderli protagonisti nella costruzione delle azioni a loro rivolte, finalizzandole ad una loro sostanziale emancipazione. Il terzo riguarda il fatto che intervenire sulle persone e sulle pratiche sociali porta ad immaginare un «secondo welfare» (Maino e Ferrara 2017) che operi “dal basso”, secondo una logica di sussidiarietà, richiamando, attivando e mettendo in rete una vasta e articolata gamma di risorse e soggetti (pubblici, privati e del terzo settore), espressione dei diversi contesti territoriali.

 

Bibliografia di riferimento

Atkinson A.B. (2015), Disuguaglianza. Che cosa si può fare?, Milano, Cortina.
Bernardi F. (2009), Globalizzazione, individualizzazione e morte delle classi sociali: uno studio empirico su 18 paesi europei, in «Polis», 2, pp. 195-220.
Bifulco L., Mozzana C. (2011), La dimensione sociale delle capacità: fattori di conversione, istituzioni e azione pubblica, in «Rassegna italiana di sociologia», 3, pp. 399-415.
Blasutig G. (2012), La condizione occupazionale dei laureati e le nuove sfide per le politiche del lavoro, Trieste, EUT.
Dubet F. (2010), Integrazione, coesione e disuguaglianze sociali, in «Stato e mercato», 88, pp. 33-58.
Franzini M., Pianta M. (2016), Disuguaglianze. Quante sono, come combatterle, Roma-Bari, Laterza.
Lodigiani R. (2008), Welfare attivo, Trento, Erickson.
Maino F., Ferrara M. (a cura di) (2017), Terzo Rapporto sul secondo welfare in Italia, Torino, Centro di Ricerca e Documentazione Luigi Einaudi.
Nussbaum, M. (2003), Capacità personale e democrazia sociale, Reggio Emilia, Diabasis.
Oxfam (2015), Wealth: Having it All and Wanting More, London, Oxfam issue briefing.
Piketty, T. (2015), Il capitale nel XXI secolo, Milano, Bompiani.
Ranci  C. (2008), Vulnerabilità sociale e nuove disuguaglianze sociali, in «Sociologia del lavoro», 110, pp. 161-172.
Stiglitz, J. (2013), Il prezzo della disuguaglianza, Torino, Einaudi.
Therborn G. (2013), The Killing Fields of Inequality, Cambridge, Polity Press.

Note

[1] Acronimo inglese di "not (engaged) in education, employment or training", in italiano anche né-né indica giovani non impegnati nello studio, nel lavoro nella formazione.

 Esodo n. 1/2018 Quale comunità? Tra paure e speranza, pp. 38-44