di Giorgio Scatto
Il 18 marzo del 2020 i nostri militari, a Bergamo, sfilavano per le strade, di notte, con a bordo centinaia di bare con i morti destinati alla cremazione fuori città. Erano le vittime del virus Covid 19. Sono immagini che rimarranno per sempre nella storia e nella memoria.
E proprio il 18 marzo di quest'anno il Senato ha approvato la legge che istituisce la Giornata nazionale in ricordo delle vittime, che si celebrerà ogni anno.
A un anno dal primo lockdown la situazione non è migliorata. C'è moltissima gente ancora con qualche congiunto in ospedale o in quarantena a casa. Le scuole sono chiuse e i luoghi di lavoro sono in grave difficoltà ad andare avanti. Tanti hanno dovuto affrontare il lutto per una persona cara. Tutti noi, cresciuti in una cultura che ha bandito il dolore e la morte, oggi ci troviamo a doverci confrontare all'improvviso con la fragilità e l'impotenza di fronte al dramma che ognuno è chiamato a vivere in prima persona, senza deleghe o possibilità di fuga.
L'impossibilità di trovare un rifugio sicuro da un nemico invisibile, l'ansia, la paura, sono i modi in cui prende forma il dolore che scuote l'anima e la mente, per mutarsi talvolta in rabbia o disperata rassegnazione, se non riesce a fluire nell'alveo della speranza e dell'amore. Il Signore, senza tanti riguardi, ci ha buttati davanti alla morte, l'evento altissimo e insostenibile che solamente la prospettiva della Pasqua consente di affrontare.
La paura della morte, che conduce alla rimozione, è oggi soprattutto determinata dallo svuotamento del suo significato simbolico. Soprattutto in questo tempo di pandemia il morire è diventato un processo che si consuma in uno stato di profondo isolamento, che non ha più i caratteri di evento sociale segnato dalla prossimità e dalla solidarietà. Oggi si muore nella solitudine, e questo crea effetti di angoscia facilmente immaginabili e profondamente devastanti. Il disancoramento dal proprio passato, fatto di muri, di terra, di volti, di odori, di suoni, e la privazione verso un futuro che non offre speranza conferiscono alla morte un senso di assoluta tragicità.
Questo nostro tempo di diffusa e veloce secolarizzazione, nel quale sono venuti meno i linguaggi capaci di rendere trasparente la speranza nell'al di là, ha trasformato la morte in una realtà del tutto intollerabile. La morte, da evento personale e sconvolgente, diventa un puro accadimento al quale assistiamo senza alcuna partecipazione diretta. L'assedio costante dei media, che riducono la morte a puro spettacolo, alimenta le barriere difensive e la tendenza all'assuefazione. Anche le notizie di devastanti terremoti, di naufragi con centinaia di vittime, di guerre dove i morti si contano a milioni, ci lasciano ormai pressoché indifferenti. Il fatto che i morti di Covid 19 solo in Italia abbiano superato il numero enorme di centomila, dopo una momentanea emozione e un breve stordimento, ci lascia senza reali vie d'uscita. Dove fuggire, del resto?
Di fatto è la presenza incombente della morte che sollecita la ricerca di una via di salvezza. Il Signore non ci dà risposte semplici, ma ci pone delle domande, aiutandoci a mettere a fuoco un argomento che avevamo trascurato. Oggi occorre tornare a parlare di morte, ma anche di risurrezione e di vita eterna. Bisogna tornare a dire senza timore che la morte non è l'ultimo e insuperabile orizzonte della vita, che non è un dio dalle fauci sempre spalancate che divora ogni esistenza umana, anche se vi sarà chi a riguardo se ne andrà scuotendo il capo.
È tempo che la Chiesa smetta di alimentare quei sentimentalismi dolciastri che rendono insopportabile tanta nostra predicazione per dire finalmente al mondo cose serie. La Chiesa deve ripetere instancabilmente a chi oggi, frastornato da ciò che accade, cerca la buona ragione per vivere e per morire, che la può trovare pienamente solo nella morte e resurrezione di Gesù.
Il primo dato che occorre richiamare, per ritrovare le coordinate antropologiche e teologiche mediante le quali è possibile cogliere il senso della morte, è lo stretto legame che unisce la morte alla vita. Anche la morte è un evento della vita, non il suo contrario, il suo opposto. L'esistenza umana, in quanto realtà segnata dal limite, consente di capire come essa porti inscritto dentro di sé il connaturale orientamento alla morte. Vita e morte sono due facce della stessa medaglia. La vita è nel suo stesso sviluppo un continuo andare verso la morte. "Quotidie morior", muoio ogni giorno, dicevano i mistici. La nostra è un’esistenza-per-la-morte.
La coscienza della continuità tra vita e morte attraversa tutta la rivelazione ebraico-cristiana. Ciò che da essa emerge è la chiara indisponibilità tanto della vita quanto della morte da parte dell'uomo. Vita e morte sono «nelle mani di Dio» come eventi che l'uomo non si può dare, ma che può soltanto «ricevere». Alla tentazione della «spiegazione» deve sostituirsi l'atteggiamento dell’accoglienza incondizionata del mistero.
Ma c'è di più. La prospettiva cristiana che guarda alla vita come «dono», come realtà che l'uomo non possiede ma da cui è posseduto, in quanto essa è, in definitiva, partecipazione alla vita del Vivente, illumina di luce nuova la stessa realtà della morte. Anche la morte è «dono» di Dio il cui senso può essere rintracciato solo in un atto di affidamento che nasce dalla fede.
Questo affidamento non consiste tuttavia in un atto di pura delega. Vita e morte sono rimessi da Dio nelle mani dell'uomo, il cui compito è quello di umanizzarli, di promuovere cioè la piena qualità umana del vivere e del morire. La morte è il momento in cui la vita raggiunge il suo pieno inveramento. Nel vangelo di Giovanni leggiamo che, «dopo aver preso l'aceto, Gesù disse: "È compiuto!". E, chinato il capo, consegnò lo spirito» (Gv 19,30). Gesù ha realizzato la sua missione terrena e, come ultimo atto della sua libertà, chinando il capo, acconsente alla sua morte. Chi sa realisticamente accettare questa verità riesce a integrare anche la morte nella vita, a coglierne l'elemento positivo. In alcune culture, meno complesse della nostra, ma per questo forse più vere, la preparazione alla morte si prolungava nel tempo mediante un efficace tirocinio che riconciliava l'uomo con la propria caducità. Veniva favorita la maturazione di un'attitudine di accoglienza della morte come evento non destituito di senso. Essa non allontanava il ritmo della vita e non determinava la tendenza al ripiegamento su se stessi, ma incrementava l'impegno a vivere più intensamente i giorni ancora disponibili gustandone tutta la ricchezza umana.
La fede conferisce ulteriore fondamento alla dimensione di possibilità propria della morte. La croce di Cristo è l'avvenimento in cui la morte del credente riceve il suo ultimo significato. Il Figlio dell'uomo non ha, infatti, vinto la morte scavalcandola, ma prendendola su di sé e vivendone fino in fondo il grande dramma umano. La speranza cristiana è speranza che fiorisce ai piedi della croce. Attraverso di essa il negativo si trasforma in positivo, il non senso acquista un senso definitivo.
La realtà del mistero pasquale ci dice, infatti, che la morte non è più l'ultimo traguardo, che esiste un al di là della morte fondato sulla certezza della risurrezione. Nell'evento di Cristo che risorge giungono a compimento le promesse di salvezza che giustificavano l'attesa dell'uomo biblico. Ma tale evento è, nello stesso tempo, promessa di un ulteriore compimento per l'umanità e per il mondo.
La morte diventa così realtà penultima: diventa momento di passaggio verso la pienezza della vita che il credente attende come dono del Signore. Nell'orizzonte della speranza cristiana la morte è il «dies natalis»; è l'atto di ingresso nella comunione dei santi, nella piena partecipazione alla vita di Dio.