di Giorgio Scatto

«Non è finito "l'inverno del nostro scontento". Il tempo della pandemia è ancora il nostro gelido presente. Tempo drammatico. Pensavamo che fosse un tempo breve e con minor danno. No, non è breve e il danno, oltre all'interminabile rosario di morti, riguarda ogni dimensione del vivere: dalla dimensione psichica, a quella culturale, a quella sociale, a quella economica. Tutta l'esistenza, resa fragile e incerta, ne è stata toccata. Anche la fede» (G. Brunelli in Regno/Attualità 2021 n.2, p. 1).

È su questo versante della fede che vorrei soffermarmi solo un istante in questo breve articolo.

Sento spesso dire che la situazione del nostro Paese impedisce di intraprendere progetti a lungo termine e che il contesto di forte ripensamento della vita ecclesiale, provocato dalla pandemia che stiamo vivendo, suggerisce al soggetto ecclesiale di tornare a concentrarsi sull'essenziale per la rigenerazione della fede del popolo di Dio. È vero; questo tempo può essere un kairòs, un tempo di grazia nel quale la Chiesa, quasi risvegliandosi da un lungo torpore provocato da un illusorio attivismo, riscopre ciò che le è più proprio: la Parola contenuta nelle Scritture, lette e pregate nell'assemblea, e l'Eucaristia che plasma e vivifica nel fuoco dello Spirito la comunità dei credenti; l'annuncio fedele e profetico del kerygma e la sua espressione visibile nei segni della carità che trasforma il mondo in Regno di Dio. Ho invece l'impressione, spesso avvalorata dai fatti, che molti soggetti ecclesiali stiano incartandosi su se stessi, non riuscendo a riconoscere i cambiamenti radicali in atto nel Paese o limitandosi a descriverli nella vuota retorica dei molti discorsi. Non raramente si riduce la liturgia a ritualità, l'annuncio a dottrina priva di autorità, la carità a iniziative di beneficienza che non toccano e non risanano la carne malata della società.

Mons. Georg Bätzing, presidente della Conferenza episcopale tedesca, ha recentemente parlato di una "esculturazione" della Chiesa, che impedisce nei fatti l'annuncio efficace del Vangelo. «Nonostante tutta la buona volontà e tutti gli sforzi noi non fermeremo la tendenza al rarefarsi del collegamento fra la Chiesa e la nostra società e al chiaro avanzare della secolarità». Allora, è proprio questo il tempo di una nuova ripartenza. Innanzitutto liberando il linguaggio religioso, che spesso ci rende prigionieri delle parole. E muti di fronte al mondo. Per esempio: cos'è la "pastorale"? Spesso si intende ogni attività che nasce attorno alla parrocchia, alle nostre chiese, ma non è così. La "pastorale " è ciò che è attinente al Pastore, il quale si è fatto Agnello e ha dato se stesso per noi. Solo una Chiesa che fa quello che ha fatto il suo Signore fa "pastorale". Allora, abbiamo bisogno di una Chiesa profetica, portatrice di una parola di speranza per tutti. Abbiamo bisogno di una Chiesa che profuma del sacerdozio consegnato a tutte le donne e a tutti gli uomini lavati dal sangue dell'Agnello, resi capaci essi stessi dell'offerta radicale della loro vita. Abbiamo bisogno di una Chiesa che dimentica se stessa e serve il mondo, realizzando così il regno di Dio.
Abbiamo bisogno di una Chiesa che guarda con amore e fiducia, con coraggio e tenerezza, il futuro che sta davanti a noi.
È questo il tempo.

Ogni vera ripartenza ha bisogno di una rottura con tutto ciò che precede, senza più voltarsi indietro.  
Il "vattene" detto ad Abramo non solo è una richiesta di distacco affettivo, ma la condizione che Dio chiede per iniziare una nuova storia. Per diventare benedizione per gli altri è necessario che Abramo prenda le distanze dalle sue origini in modo tale che il Signore crei in lui e da lui nuove origini, poiché questo nuovo inizio sarà fondato sulla benedizione. Il nuovo punto di partenza sarà esclusivamente la Parola di Dio, una parola che nella sua sostanza non dà niente, ma chiede di essere adempiuta. La sua realizzazione dipende da chi parla e da chi ascolta. Una Parola che è un invito, un comando che non può essere discusso, non ha posto per compromessi e non accetta obiezioni, ha un'unica risposta, partire.

C'è una seconda ripartenza, dopo il lungo esilio a Babilonia.
I giudei, ritornati a Gerusalemme, trovarono le rovine del tempio, una città distrutta, un territorio in preda alla violenza dei samaritani e delle loro razzie. Non erano tempi favorevoli. Ma allora, in una situazione di grave difficoltà, che si ergeva come un muro che impediva di vedere lontano, il popolo fu capace di una nuova ripartenza. «Tutto il popolo si radunò come un solo uomo sulla piazza. Il sacerdote portò il libro della Legge davanti all'assemblea degli uomini, delle donne, e di quanti erano capaci di intendere. Essi leggevano il libro della Legge di Dio a brani distinti e spiegavano il senso, e così facevano comprendere la lettura. Poi Neemia disse: "Andate, mangiate carni grasse e bevete vini dolci e mandate porzioni a quelli che nulla hanno di preparato, perché questo giorno è consacrato al Signore; non vi rattristate, perché la gioia del Signore è la vostra forza"» (Ne 8,1-10 passim). Un popolo radunato attorno alla Parola; la condivisione dei beni; la gioia: le condizioni per una nuova partenza. Niente altro. 

C'è ancora una pagina della Sacra Scrittura che vorrei brevemente citare, ed è la Pentecoste (At 2,1-36).
Non possiamo dire che ci fossero le condizioni ideali per nuovi cammini. Gesù era morto nel disprezzo di molti, soprattutto dei capi religiosi; i discepoli si erano dispersi ed erano tornati alle loro occupazioni; tutto sembrava tragicamente finito. Non c'era più futuro. Come poter pensare di essere testimoni di un crocifisso «a Gerusalemme, in tutta la Giudea e la Samaria e fino ai confini della terra», mentre tutto congiurava contro di loro? Non erano tempi favorevoli per un’impresa così grande! Ma, mentre i discepoli erano tutti insieme nello stesso luogo, incapaci di vedere più lontano della porta del cenacolo, «venne all'improvviso dal cielo un fragore, quasi un vento che si abbatte impetuoso, e riempì tutta la casa dove stavano». E «tutti furono colmati di Spirito Santo».

Qualcuno ha scritto che "lo Spirito è il vento che non lascia dormire la polvere". Allora, per ripartire, non abbiamo bisogno di programmi audaci, di progetti pastorali innovativi, per i quali non siamo attrezzati, con la scusa che i tempi non sono favorevoli: abbiamo bisogno dello Spirito, che ci lancia lontano, come la polvere del Sahara che raggiunge anche le nostre terre.
Per noi, per tutta la Chiesa, per tutto quello che si presenta alla nostra esperienza come arduo, difficile, insormontabile per le nostre forze, abbiamo bisogno dello Spirito.
«Veni creator Spiritus».