di Giorgio Scatto 

In questi giorni che precedono il Natale siamo molto preoccupati nel vedere le nostre piazze prese d'assalto da gente che va in giro come se fosse un tempo normale e non invece un doloroso e infinito periodo di grave pandemia, che necessita di comportamenti prudenti e responsabili. L'interesse individuale sopravanza l'urgenza di salvaguardare il bene di tutti. Andando per le strade come mosche che succhiano più forte quando sentono avvicinarsi la pioggia, molti diventano come dei rapaci predatori, nel desiderio smodato di mettere da parte beni inutili, suggeriti dalla propaganda del momento; altre volte sono come smarriti personaggi in cerca d'autore, perché, tra le molte maschere offerte dal sistema, non sanno più chi sono e dove stanno andando.
Così, anche le nostre affollate città, soprattutto in questi giorni, sono dei silenziosi e vuoti deserti. Poiché rari sono coloro che le sanno guardare con occhio attento.

C'è invece una "teologia dello sguardo" che aiuta a conoscere la realtà senza avere la pretesa di comprenderla integralmente, conservando l'elemento dello "stupore", che è tipico della fanciullezza. Solo chi ha il cuore di un bambino si avvicina a conoscere realmente. È con lo sguardo del cuore che conosciamo. Gli occhi sono un luogo privilegiato, dove si manifesta l'anima e la natura spirituale dell'essere umano. Se tutto il corpo «parla», il volto è la concentrazione della nostra capacità espressiva. Lo sguardo è la nostra finestra sulla realtà, ma anche la porta d'ingresso attraverso cui gli altri possono accedere al nostro mondo interiore. Con gli occhi non solo vediamo. Con gli occhi e con lo sguardo ascoltiamo, gridiamo, supplichiamo, amiamo e odiamo, creiamo legami o esprimiamo chiusure, mostriamo fragilità o ostentiamo autosufficienza.

Il 25 agosto 2011, portando il suo saluto al primo Congresso di Pastorale Urbana tenutosi a Buenos Aires, l'allora cardinale Jorge Bergoglio, divenuto poi papa con il nome di Francesco, affermava che «nella città ci sono moltissimi "non cittadini", "cittadini a metà", "di troppo", perché non godono di pieni diritti: gli esclusi, gli stranieri, i senza tetto, i bambini non scolarizzati, gli anziani e i malati senza protezione sociale». Quello dell'arcivescovo di Buenos Aires è un occhio attento, che sa guardare in profondità, oltre le luci della ribalta. In questo senso lo sguardo trascendente della fede, che conduce al rispetto e all'amore del prossimo, aiuta a scegliere di essere cittadini di una città concreta e a mettere in pratica atteggiamenti e comportamenti che creano cittadinanza. Proprio il contrario di un superficiale, vuoto ed egoistico individualismo. «Lo sguardo di fede ci induce ad uscire ogni giorno, e sempre più, incontro al prossimo che abita nella città. Ci spinge ad uscire verso l'incontro perché questo sguardo si alimenta nella vicinanza. Non tollera la distanza, avverte che la distanza sfoca ciò che desidera vedere; e la fede vuole vedere per servire e amare, non per costatare e dominare» (Jorge Bergoglio).

Girolamo, un appassionato scrittore e fedele traduttore delle Scritture dall'ebraico al latino, scriveva: «Se il Cristo non avesse avuto anche nel volto e negli occhi qualcosa di celestiale (quiddam sidereum) mai gli apostoli lo avrebbero seguito all'istante, né coloro che erano venuti ad arrestarlo sarebbero caduti a terra tramortiti» (Girolamo, Lettere 65,8). Credo che sia profondamente vero. Tuttavia «la sua divinità - ci ricorda il teologo Joseph Moingt - si rivela proprio nella grandezza della sua umanità» (J. Moingt, L'umanesimo evangelico, Magnano 2015, p. 15).

Proviamo allora a osservare lo sguardo di Gesù, che si fa prossimità e incontro, limitandoci a scorrere velocemente il Vangelo di Marco.
«Andando lungo il mare di Galilea, vide Simone e Andrea, fratello di Simone, mentre gettavano le reti in mare» (Mc 1,16). Osservo questo rabbi delle periferie andare lungo le strade di tutti, in un'anonima giornata di lavoro, e chiamare a sé, con uno sguardo e con una parola appena sussurrata, due uomini che erano intenti al loro mestiere di pescatori. È l'inizio di una storia affascinante che non si è ancora conclusa.
Leggo poi di una donna, che soffriva da dodici anni di menorragia. In mezzo alla folla, riesce a toccare il mantello di Gesù, sperando di venire guarita dal suo male. «Egli guardava intorno, per vedere colei che aveva fatto questo» (Mc 5,32). Gesù vede la fede della donna, che si è gettata ai suoi piedi impaurita e tremante, e la rimanda in pace, guarita.
E ho trovato lo sguardo di Gesù, pieno di compassione, rivolto alla folla che lo seguiva in un luogo deserto: «Vide una grande folla ed ebbe compassione di loro, perché erano come pecore che non hanno pastore» (Mc 6,34). Non basta vedere la gente, occorre anche leggere con lo sguardo del cuore il suo bisogno più profondo. Andando oltre, gli corre incontro un tale che cerca di procurarsi la vita eterna. È un fedele, e non gli è sfuggito mai un comandamento da osservare. «Allora Gesù fissò lo sguardo su di lui» (Mc 10,21),  invitandolo a seguirlo, dopo aver distribuito i suoi beni ai poveri. Ma la tristezza si impadronisce di costui, che possiede molti beni e non è capace di compiere un gesto di condivisione che gli avrebbe alleggerito il cuore, rendendolo finalmente libero. Io penso che, andando via, Gesù abbia continuato a guardarlo, e credo che lo stia guardando ancora, perché quel tale rappresenta ciascuno di noi, adesso.
Trovo poi, subito dopo l'ingresso messianico di Gesù a Gerusalemme, un versetto inquietante: «Ed entrò a Gerusalemme, nel tempio. E dopo aver guardato ogni cosa attorno, essendo ormai l'ora tarda, uscì con i Dodici verso Betania» (Mc 11,11). È uno sguardo senza parole, circolare, che registra l'ostilità e la cieca violenza che si sta abbattendo su di lui. Quello di Gesù è uno sguardo che vede già tutto il dramma che gli sta dinanzi.
Le pagine del vangelo continuano, narrando di dispute e scontri molto accesi con capi dei sacerdoti e scribi, anziani del popolo e farisei, erodiani e sadducei: nessuno viene risparmiato. E quando «seduto di fronte al tesoro, osservava come la folla vi gettava monete, e tanti ricchi ne gettavano molte», vedendo una vedova povera che gettava nel tesoro due monetine «tutto quello che aveva, tutto quanto aveva per vivere», (letteralmente «tutta la sua vita»), si immedesima nella figura di quella povera donna, sapendo che la sua stessa esistenza era interamente donata, senza nulla trattenere per sé.
Permettete un'altra immagine evangelica, l'ultima. Ci troviamo nella casa del sommo sacerdote, dove Gesù viene portato in catene. Lì si consuma il triplice rinnegamento di Pietro: «Mentre ancora parlava, un gallo cantò Allora il Signore si voltò e fissò lo sguardo su Pietro, e Pietro si ricordò della parola che il Signore gli aveva detto: "Prima che il gallo canti, oggi mi rinnegherai tre volte". E uscito fuori pianse amaramente».

Tutta la nostra vicenda umana può essere compresa tra questo sguardo di Gesù, pieno di compassione e di tenerezza, e lo sguardo di Pietro che, incrociando quello del suo Maestro, lava nelle lacrime il suo tradimento.
Lasciarsi guardare è "il soffio sulla brace" capace di rivitalizzare il nostro cammino, spesso stanco e disorientato.