di Giannino Piana
L’articolo Posterius del vescovo Bettazzi pubblicato da "Rocca" apre una nuova prospettiva in una materia assai delicata come l’interruzione di gravidanza? Se è così quali sono gli elementi di novità rispetto alla tradizionale dottrina cattolica?
L’intervento di Bettazzi è senz’altro un intervento coraggioso, stante l’età avanzata – Bettazzi che ha 99 anni è nel nostro Paese l’ultimo vescovo testimone del Concilio – e l’autorevolezza che gli è propria in quanto membro della gerarchia cattolica. Non vi è dubbio che la sua presa di posizione non rifletta la dottrina ufficiale della chiesa, che insiste nel ribadire che la vita della persona ha inizio all’atto stesso del concepimento.
La tradizione cattolica ripercorsa diacronicamente si rivela tuttavia, al riguardo, più complessa di quanto non sembri risultare dalla posizione attuale. Che l’inizio della vita personale vada spostato in avanti rispetto al momento del concepimento è ipotesi largamente accreditata in ambito scientifico, anche se questo spostamento è variamente interpretato. La novità di Bettazzi non consiste allora tanto nel confermare tale dato scientifico quanto nella modalità argomentativa con la quale egli giunge a tale conclusione. Bettazzi deduce (non so se colgo bene il suo pensiero) la propria ipotesi dal rapporto che si istituisce tra ragione e intuizione, lasciando intravedere il limite delle argomentazioni razionali e l’esigenza del ricorso ad argomentazioni esistenziali che, nel caso dell’interruzione di gravidanza, vanno fatte risalire al vissuto della donna.
In che misura e in che senso questa novità può essere accolta dal magistero della chiesa?
Credo di avere già sostanzialmente risposto a questo interrogativo sottolineando la persistenza della dottrina tradizionale, ribadita con forza anche da recenti pesanti interventi di papa Francesco. Non vedo dunque aprirsi alcuno spiraglio per un cambiamento dottrinale. Può invece cambiare l’atteggiamento pastorale – e papa Francesco parzialmente lo ha fatto proponendo un atteggiamento di maggiore comprensione (si pensi soltanto all’abolizione della scomunica) – ma è difficile che venga messa in discussione la posizione dottrinale in vigore. Diverso è l’atteggiamento assunto da una parte consistente della teologia morale cattolica che, ponendo sempre maggiore attenzione al dato scientifico, non manca di sollevare obiezioni e di formulare ipotesi alternative, senza trovare tuttavia uno spazio adeguato per un sereno confronto con il magistero.
Non le sembra che nella prospettiva indicata da Bettazzi venga modificato anche il rapporto tra l’aspetto soggettivo che diventa centrale e quello oggettivo della norma etica?
La posizione del vescovo Bettazzi implica certo una visione della morale in cui aspetto oggettivo e aspetto soggettivo si intrecciano tra loro. Tale visione non è in realtà nuova; risale alla più antica tradizione cristiana, dove la verità morale, lungi dall’essere considerata una verità assoluta di stampo metafisico, include la soggettività come elemento costitutivo e, in ultima analisi, determinante. Basti qui ricordare le condizioni previste per parlare in senso stretto di peccato, il peccato mortale, dove accanto al fattore oggettivo – la materia grave – vengono elencati due fattori soggettivi: la piena avvertenza e il deliberato consenso. Che poi al dato soggettivo venga data nella tradizione manualistica teoricamente la precedenza è fuori discussione. E’ sufficiente ricordare, a tale proposito, il primato della coscienza nella valutazione morale, compresa la coscienza cosiddetta “invincibilmente erronea”. Purtroppo questo criterio è stato del tutto ignorato dalla prassi pastorale, nella quale – si pensi alla confessione – a prevalere è stato a lungo il confronto con la norma, senza alcuna attenzione al vissuto della persona, alla percezione che essa ha dell’atto e al grado di libertà, dunque di responsabilità, in quel momento in essa presente.
Non vi è poi nella proposta Bettazzi anche una modifica del concetto di aborto, che appare qui un vero diritto della donna, se pur non assoluto? Che ne pensi?
Ho qualche difficoltà a scorgere come immediata questa ricaduta. E’ pur vero che la definizione di aborto – soprattutto del momento del suo inizio – non è stata nella chiesa sempre univoca. Tommaso d’Aquino riteneva, per ragioni scientificamente superate, che si dovesse parlare di aborto soltanto a partire dalla comparsa dell’anima, pur considerando fin dall’inizio l’interruzione della gravidanza come un grave atto morale. L’affermazione che abortire costituisca un vero e proprio diritto della donna suscita in me qualche perplessità. Sono invece pienamente d’accordo sull’applicazione del principio di autodeterminazione, il quale non va tuttavia esercitato dalla donna in termini individualistici, ma chiamando in causa, laddove possibile, il partner e coinvolgendo – come molto opportunamente sottolinea la legge 194 – l’intera società che può (e non deve) lasciarla sola nell’assunzione di una decisione tanto impegnativa.
Dietro la posizione di coloro che attribuiscono personalità giuridica all’embrione considerandolo persona contro ogni evidenza scientifica non vi è forse l’idea, anche se vissuta inconsapevolmente, che l’identità umana stia nel Dna e si trasmetta per via di sangue alla stirpe?
Questa idea può senz’altro sussistere. Il biologismo è una forma di materialismo, di cui anche la chiesa si è resa colpevole, che non tiene in considerazione parlando di persona l’importanza dei fattori educativi, sociali e culturali, e il fatto che persona si diventa attraverso un processo che si prolunga nel tempo. Non si può però sottacere l’esistenza in questo processo di alcune tappe, distinguendo tra vita biologica, che sussiste fin dal momento della fecondazione – il Dna è un Dna umano –, vita individuale e vita personale. Si tratta di tre stadi che si succedono a distanza temporale l’uno dall’altro fino alla piena configurazione del soggetto umano.
Infine, un’ultima domanda. Nell’articolo di commento all’intervento del vescovo Bettazzi tu parli di “mistero” a proposito del momento di inizio della vita personale, ma al tempo stesso non rinunci a fare appello al dato scientifico. Tra le due affermazioni non vi è forse contraddizione?
Credo proprio di “no”. Il dato scientifico è, di sua natura ipotetico, fondato su argomentazioni, che per quanto seriamente fondate, non sono mai apodittiche. Altrimenti non si spiegherebbe l’esistenza sulla questione dell’inizio della vita umana di posizioni diverse che hanno ciascuna una propria giustificazione. La scienza, quella vera, non conduce mai a esiti assoluti; è sempre, in qualche misura, una realtà in fieri o – come dice Popper – falsificabile; e questo soprattutto quando si tratta di scienze umane che hanno per oggetto lo stesso soggetto umano. Purtroppo è oggi diffusa nell’opinione pubblica una forma di scientismo, che fa della scienza una sorta di religione con risvolti di assolutezza dogmatica; una religione che sembra dunque aver preso il posto della religione tradizionale gravemente in crisi.