di Giannino Piana
Il Rapporto del 2022 della Caritas relativo al 2021 riporta dati allarmanti. Le famiglie in stato di povertà assoluta hanno raggiunto un milione e 990mila (il 9,4 per cento della popolazione italiana), e la percentuale più alta riguarda i bambini e i ragazzi, lasciando chiaramente intravedere che la povertà diviene una realtà strutturale non legata a situazioni contingenti e che a essere bloccati sono i meccanismi di inclusione e di mobilità sociale. Che cosa pensarne?
I dati davvero allarmanti sarebbero probabilmente ancora più alti se si prolungasse la ricerca al primo semestre di quest’anno. Le restrizioni imposte dalla guerra ucraina hanno ulteriormente aggravato (e non potevano che farlo) la situazione.
A questo si aggiunge l’assenza di prospettive diverse per il futuro, almeno in tempi brevi, la mancanza cioè di segnali che indichino la possibilità di fuoriuscita e diventino suscitatori di speranza! La povertà, che non è più – come il Rapporto ci ricorda – un fatto congiunturale ma strutturale coinvolge famiglie con basso livello di istruzione e condizioni di instabilità lavorativa, e diviene – come ancora il Rapporto segnala – un fatto ereditario con percentuali sempre più alte di bambini e ragazzi. Questo significa, da un lato, l’assenza di un Welfare efficiente che affronti situazioni drammatiche come quelle ricordate. Ma denuncia anche l’assenza di politiche del lavoro che vincano (o almeno ridimensionino) il fenomeno della disoccupazione e dell’inoccupazione giovanile, creando le condizioni atte a favorire un processo di rilancio dell’economia interna e che attirino nuove forze produttive nel nostro Paese.
In questa logica molti sottolineano il grande apporto fornito in proposito dal “reddito di cittadinanza”. Vi è tuttavia (e anche questo sono molti a sostenerlo) che si tratti di uno strumento assistenzialista e clientelare che non fornisce alcun contributo alla crescita del Paese. Quale giudizio si può dare di tutto questo?
Credo che il giudizio non possa essere assolutamente positivo o drasticamente negativo. Si tratta di fare discernimento non dimenticando la connaturale ambivalenza delle scelte umane. Non ha infatti torto chi evidenzia il rischio dell’assistenzialismo (peraltro per molti aspetti in atto), ma non si può dimenticare che in una situazione di emergenza, iniziata nel 2007-2008 negli Stati Uniti con la speculazione finanziaria e resa più acuta dalla pandemia e dalla guerra, il “reddito di cittadinanza” ha svolto un ruolo positivo nel far fronte al dilagare delle povertà offrendo ad essa un argine prezioso. Sono perciò contrario, almeno in questo momento alla sua abolizione, che costituirebbe un indubbio passo indietro, ma credo si debba procedere a riformarlo, avendo come obiettivo un inserimento sempre maggiore di chi lo riceve nell’attività lavorativa. Il che impone maggiori controlli sullo stato di chi ne è beneficiario – una percentuale alta ne fruisce senza alcuna condizione – e creando i presupposti che favoriscano l’inserimento di molti nel mondo del lavoro.
Non si può escludere che in chi respinge il reddito di cittadinanza vi sia talora un atteggiamento di rifiuto pregiudiziale che nasce da ragioni ideologiche. Quali?
Le ragioni del rifiuto sono anzitutto quelle già ricordate. Ma a queste se ne devono aggiungere altre, una in particolare, quella di coloro che ritengono che per vincere la povertà occorra dare impulso a uno sviluppo progressivo e un costante aumento della ricchezza. Questa posizione è quanto meno ambigua. Non già perché non si debba procedere a un incremento della produttività, ma perché occorre, di volta in volta, domandarsi che cosa e per chi lo si produce e a quali condizioni lavorative. Diversa è la produzione di beni utili, che soddisfano bisogni primari di tutti, dalla produzione di beni aleatori, talvolta persino alienanti in quanto indotti dalla pressione sociale i quali hanno come conseguenza l’aumento della povertà e l’inquinamento ambientale. E poi vi è il problema della distribuzione di quanto viene prodotto. A determinare le situazioni di povertà ricordate non è tanto l’assenza di produzione e di ricchezza quanto la loro cattiva distribuzione. Scandalosa è, al riguardo, la crescita esponenziale delle diseguaglianze, che costituisce un atto di grave ingiustizia, di vero e proprio furto alla comunità e che viene spudoratamente accettato senza alcun rimorso da chi ne fruisce. Nel suo recente volume dal titolo Diseguaglianze Stefano Zamagni fornisce una rassegna dettagliata di quanto si è verificato negli ultimi decenni con una crescita progressiva del divario tra classe lavorativa e classe dirigenziale, fino a mille volte il guadagno di questi ultimi rispetto al salario dei primi! L’accumulo della ricchezza nelle mani di pochi – si pensi alle società di informazione – è senz’altro una delle cause (se non la più importante) della crescita della povertà. Se si vuole uscire da questo stato di cose, occorre invertire con urgenza la rotta.
Purtroppo vi è chi anziché farsi carico di questa situazione preferisce colpevolizzare i poveri, mettendo in evidenza la loro mancanza di intraprendenza e sottolineando come l’ascensore sociale, fino ai vertici ricordati, sia frutto del merito personale di chi si impegna nell’attività lavorativa. Che cosa sta dietro a tali convinzioni?
È facile gettare la colpa sugli altri, ponendosi dalla parte giusta e cercando delle gratificanti giustificazioni, Non è questa del resto la tentazione farisaica, svelata e condannata da Gesù? Il ricorso alla questione del merito è la strada privilegiata con la quale ci si mette a posto la coscienza, sentendosi nel giusto e giudicando con superiorità altezzosa colui che è rimasto indietro. Una società meritocratica – va detto senza alcuna esitazione – è una società disumana, prima ancora che anticristiana. È la società prefigurata dall’atteggiamento del fariseo della parabola che si presenta davanti a Dio vantando la propria correttezza e i risultati raggiunti e guarda con disprezzo il pubblicano considerandolo un reprobo. Le conseguenze di tutto questo le conosciamo e vanno fatte oggetto di seria riflessione. A contare non è dunque tanto il risultato, ma – come ci insegna la parabola dei talenti – l’impegno a far fruttare quanto si è ricevuto.
La nostra Costituzione, che nella prima parte – quella dedicata a porre le basi di una società democratica e solidale – conserva intatta la sua attualità, ci spinge a creare le condizioni perché a tutti venga garantita la possibilità di una vita degna, impegnata a esercitare, a tutti gli effetti, la propria cittadinanza. Non è questo il paradigma cui ispirare l’attività delle istituzioni pubbliche in generale?
Il richiamo all’articolo 3 della Costituzione è d’obbligo. L’espressione usata per definire il compito della Repubblica, quello di “rimuovere gli ostacoli” che impediscono ai lavoratori l’esercizio pieno della cittadinanza è ancor oggi di grande attualità. Una società giusta si costituisce soltanto laddove si rende possibile e si attua la partecipazione di tutti, pur nel rispetto delle potenzialità di ciascuno e dunque della diversità dei carismi e della propria vocazione civile, dando vita in questo modo all’attuazione di una forma di convivenza democratica e solidale.