di Giannino Piana
A un consistente incremento della produttività, almeno nel Nord, e la promulgazione dello Statuto dei lavoratori non è corrisposta una regolamentazione più seria del lavoro; anzi lavoro nero e precariato si sono sempre più diffusi. Quali le ragioni? E che cosa si può fare per uscire da questa situazione?
Che questa sia l’attuale situazione è fuori dubbio. Più difficile è individuarne le ragioni, che sono diverse e complesse. Il mercato del lavoro è negli ultimi decenni fortemente cambiato.
È sufficiente richiamare qui l’attenzione, da un lato, sulla sua delocalizzazione da parte di aziende occidentali nelle aree più povere della terra, dove il costo del lavoro è assai più contenuto ed è assente la tutela dei diritti fondamentali dei lavoratori; dall’altro, sul fenomeno del precariato che crea condizioni di insicurezza e impedisce (o quanto meno limita) la possibilità di scelte di vita impegnative. Ma il fenomeno da noi più preoccupante e in continua ascesa è il lavoro nero che, oltre a sottrarre allo Stato parecchi miliardi, una vera e propria frode nei confronti dei cittadini onesti, consente che il lavoratore sia in totale balìa dei padroni. In realtà, a fornire un importante supporto all’estendersi di quest’ultimo fenomeno ha concorso in maniera consistente il profondo cambio del sistema industriale, con il forte calo della grande industria sulla quale si esercitava il controllo del sindacato e l’affermarsi della piccola industria e delle botteghe artigianali – si pensi al Veneto – con una proliferazione a ritmo accelerato e con la conseguente difficoltà all’esercizio di ogni forma di controllo. Emblematico è, a tale riguardo, il fenomeno estremo del caporalato, che non può essere ridotto a semplice fenomeno presente in alcune aree del Sud (Puglia e Sicilia in primo luogo) ma si estende anche ad alcune aree del Nord (Trentino, Veneto, Piemonte ed Emilia Romagna), denunciando l’inciviltà di un Paese come il nostro dove sono presenti vere e proprie schiavitù perpetrate soprattutto nei confronti di immigrati che accettano ogni forma di attività lavorativa, comprese quelle più umilianti, più massacranti e ad alto rischio pur di assicurarsi la sopravvivenza, costituisce una vergogna insopportabile.
È possibile fissare alcuni criteri irrinunciabili per la salvaguardia della dignità del lavoro? E come possono essere resi operativi?
Quanto fin qui rilevato costituisce un vulnus gravissimo, una vera pesante offesa nei confronti della dignità del lavoro, e di conseguenza della dignità della persona umana. Esistono certo criteri fondamentali per la salvaguardia della dignità del lavoro: si pensi, in primo luogo, all’importanza che a esso conferiscono le grandi Carte dei diritti umani. E ancora: si pensi alla centralità assegnata al lavoro dalla nostra Costituzione, al punto di fare di esso lo stesso fondamento della Repubblica. Se il lavoro, insieme alla salute e all’istruzione, è uno dei diritti dei quali lo Stato sociale deve farsi garante, in quanto fattore di autorealizzazione personale, di costruzione di relazioni sociali e di solidarietà fondata sulla comune appartenenza, allora non è più sufficiente la tutela di condizioni che non compromettano la salute fisica e psichica e assicurino dai rischi dovuti alle mancate protezioni, ma occorre andare oltre, promuovendo la qualità del lavoro. Accanto al diritto al lavoro, sancito – co me si è detto – dalla nostra Costituzione si danno infatti i diritti del lavoratore, che si estendono alle tutele ricordate per farlo uscire dallo stato di alienazione – alcune pagine di Marx sulla mercificazione del lavoro sono tuttora attuali –, ed esigono che si rintraccino vie adeguate allo sviluppo dell’integralità della persona e alla possibilità che essa esprima i propri talenti, mettendoli al servizio dell’intera famiglia umana. Quanto al rendere operativi tali obiettivi ciò che va anzitutto messo in atto è un serio controllo di quanto nel mondo del lavoro avviene, intervenendo in modo tempestivo e severo nei confronti degli abusi richiamati. E, accanto al controllo è importante dare vita a un sistema efficace di vigilanza che, agendo in modo preventivo, possa evitare in partenza (o almeno contenere) gli effetti negativi ricordati. Da ultimo (ma non in ordine di importanza) si tratta di creare nei cittadini una coscienza diffusa, che prendendo consapevolezza del grande valore del lavoro, respinga con forza tutto ciò che può nuocere al suo esercizio.
Che dire a chi ritiene che, soprattutto stante l’attuale emergenza economica, la salvaguardia dei diritti non può andare oltre la situazione attuale, altrimenti c’è il rischio di incorrere in una ulteriore crisi economica?
Credo si debba respingere con forza l’argomentazione qui proposta e avanzata da molti. Al rischio della crisi economica si deve reagire, mettendo in discussione l’attuale sistema neocapitalista, nel quale a contare è soltanto il mercato, e un mercato senza regole, che produce effetti devastanti per la vita collettiva, mettendo a repentaglio la stessa democrazia. Si aprirebbe, a questo punto, una seria e articolata riflessione, ma non è questa la sede per farlo.