di Giannino Piana   

Da più parti anche in occasione di quest’ultima campagna elettorale è stata messa in evidenza l’assenza dei cattolici nella vita pubblica, e in particolare nella politica. Che cosa ne pensi? E, se è vero, quali le cause?

Non vi è dubbio che in questi ultimi decenni la presenza dei cattolici nella politica italiana si è rarefatta fin quasi a scomparire. Le ragioni di questa assenza sono molte e di diversa natura ed entità.

Il riconoscimento da parte del Vaticano II della laicità della politica, e perciò della sua autonomia nei confronti della fede, e la conseguente sollecitazione rivolta ai cattolici a collaborare con tutti gli uomini di buona volontà in vista del perseguimento del bene comune, ha reso inattendibili le ragioni dell’esistenza di partiti confessionali. Nel nostro Paese a farne le spese è stato il partito della Democrazia cristiana che ha perso l’esclusività della rappresentanza del mondo cattolico con il venir meno dell’unità e l’avvio della diaspora dei cattolici nei vari partiti appartenenti a diverse aree culturali. Questa diaspora è avvenuta in realtà solo parzialmente, anche perché, nello stesso periodo, si è assistito al progressivo degrado dei partiti trasformatisi da luoghi di partecipazione e di elaborazione culturale in strutture di potere con l’aggravante della presenza al loro interno di gravi fenomeni corruttivi, che hanno trovato sbocco nell’azione giudiziaria di Tangentopoli. La cancellazione di alcuni partiti, tra i quali la stessa DC, e il forte discredito della politica nell’ambito dell’opinione pubblica hanno allontanato da essa molti cattolici (e non solo), dando vita a un processo degenerativo della rappresentanza.

Di fronte a questa situazione vi è chi rimpiange l’unità dei cattolici e auspica la nascita di un partito non rigidamente confessionale – la lezione del Concilio non può essere del tutto ignorata – che ispiri la propria condotta ai valori propri del cristianesimo. È un’ipotesi accettabile?

A parte che credo impossibile il verificarsi di tale ipotesi perché anacronistica, la ritengo in ogni caso inaccettabile dal punto di vista culturale ed etico. Si tratterebbe di un ritorno indietro, peraltro con scarsa possibilità di successo: si verrebbe infatti a creare un blocco minoritario che finirebbe per suscitare, in presenza del costante avanzamento del fenomeno della secolarizzazione, pesanti conflitti destinati – com’è già avvenuto in un passato non tanto remoto – a radicalizzare le rispettive posizioni dando vita a leggi sempre meno attente al sistema valoriale che si ispira alla tradizione cristiana. La via da percorrere è allora quella del dialogo, di un confronto aperto con tutte le visioni ideologiche e culturali, non rinunciando a proporre, in una prospettiva laica – i valori evangelici sono di per sé valori umani – la propria visione ma accettando pienamente le regole della democrazia per le quali a contare è la ricerca della convergenza attorno a un ethos civile condiviso. Il che comporta l’adozione della mediazione come metodo operativo e l’accettazione del compromesso, inteso positivamente come compromissione con la realtà in vista del perseguimento del bene possibile e talora semplicemente del male minore. Non è questa, del resto, la specificità dell’azione politica, chiamata a mediare tra ideale e realtà, non rincorrendo il bene assoluto mai realizzabile, ma riconoscendo il limite della realtà al fine di intervenire in modo efficace su di essa?

La prospettiva che qui emerge suppone, come già hai ricordato, la presenza dei cattolici nei diversi partiti nel segno di un autentico pluralismo. Ma fin dove è possibile dare spazio a tale pluralismo? E come in particolare questo criterio è applicabile all’attuale situazione italiana?

Va detto anzitutto che pluralismo non significa accettazione di qualsiasi visione della realtà. Esistono dei limiti oggettivi alla pratica del pluralismo che vanno assolutamente rispettati. Quando ci si trova di fronte a progetti politici apertamente in contrasto con fondamentali valori umani o incompatibili con le regole della democrazia la proposta va decisamente rifiutata. Per questo, venendo alla situazione italiana non è difficile riscontrare in alcune aree culturali condizioni che rendono impossibile una partecipazione diretta dei cattolici. Si pensi a partiti che indulgono verso posizioni razziste, proponendo il respingimento degli immigrati; o ad altri che perseguono la perpetuazione di un sistema economico ingiusto che alimenta le diseguaglianze tra le classi sociali; o ad altri che, ispirandosi a una concezione nazionalista, dimenticano il dovere della cooperazione internazionale e la necessità di dare alla politica un respiro universalistico; o ad altri, infine, che ripiegati sulla difesa e sulla promozione dei diritti soggettivi trascurano di dare la dovuta rilevanza ai diritti sociali. E l’elenco potrebbe continuare. È evidente come tutto ciò renda estremamente difficile l’esercizio del discernimento e l’individuazione della propria possibile collocazione. Ma questo non giustifica il disimpegno motivato dalla volontà di tenersi le mani pulite; obbliga a fare delle scelte, non dimenticando quanto già si è detto a proposito dei limiti della politica e rifiutando l’adesione a una forma di qualunquismo che mette sullo stesso piano tutti i partiti politici senza alcuna distinzione.    
                      

Da più parti, riconoscendo una forte presenza dei cattolici nell’ambito del volontariato e dell’associazionismo in generale, si ritiene che questa sia oggi la strada da percorrere. Non è questo del resto – si dice – un modo di fare politica?

Che volontariato e associazionismo in generale rappresentino una modalità di presenza nella società civile con un risvolto politico è fuori discussione. E che si tratti di un’attività in sintonia con i valori evangelici è senz’altro vero: si pensi a valori come la gratuità e la solidarietà, l’accoglienza e la compassione che occupano un ruolo centrale nella proposta cristiana. Questo non significa tuttavia che l’impegno dei cattolici debba esaurirsi all’interno di questo ambito. L’importanza della politica in senso stretto per la creazione di strutture sempre più adeguate a far fronte ai bisogni dei cittadini, in particolare dei più poveri, obbliga a una doverosa assunzione di responsabilità alla quale il mondo cattolico non può (e non deve) sottrarsi. Si verrebbe altrimenti meno a un servizio fondamentale alla crescita della comunità umana e alla promozione della società civile.

Un’ultima domanda: e la chiesa quale ruolo può esercitare in tutto questo?

Due – ritengo – siano le modalità di intervento che le comunità cristiane debbano privilegiare. La prima è l’attività formativa. I corsi di formazione politica attivati negli anni 80 del secolo scorso non hanno avuto gli esiti che si attendevano. Forse per l’eccessiva astrattezza delle proposte e per il ricorso a una metodologia superata, quella delle lezioni cattedratiche. L’illustrazione dei principi, per quanto essenziale, non basta. E’ necessario, anche per il venir meno delle scuole di partito, fornire nozioni concrete circa i meccanismi di gestione della pubblica amministrazione in tutte le sue articolazioni. Ed è, nello stesso tempo, necessario adottare un metodo più partecipato e coinvolgente. La seconda modalità è la creazione all’interno della chiesa di spazi di confronto tra i militanti nelle diverse aree politiche per cercare convergenze su valori comuni e riflettere sul come renderli operanti nell’azione politica. In questo la chiesa italiana è mancata, venendo meno all’offerta di un prezioso servizio alla comunità civile.