di Giannino Piana

Il superamento dello stato di emergenza sanitaria e il ritorno alla normalità costruiscono senz’altro un dato positivo. Ma di che normalità si tratta? Non c’è il rischio che si assuma come modello quello di prima della pandemia, che è stato la causa principale del dilagare del Covd-19? Che ne pensi?

Penso che tu abbia perfettamente ragione. Il venir meno della pandemia, peraltro non del tutto superata, e la cessazione in ogni caso dello stato di emergenza per tornare allo stato di normalità sollevano grossi problemi, non facili da affrontare e tanto meno da risolvere.

L’interrogativo di fondo è: quale normalità? Si tratta di tornare alla normalità del passato o di andare in direzione diversa? E quale? Non si può dimenticare che la normalità del passato è una delle ragioni (probabilmente la principale) – come giustamente sottolinei – dell’emergere dell’esperienza drammatica del Covid-19. La via da imboccare dovrebbe dunque essere del tutto alternativa. Ma le previsioni non sono ottimistiche. L’ipotesi più realistica è che a prevalere sia un ritorno al modello di società che ha avuto fino a ieri il sopravvento. Anzi, c’è il rischio che si accentui lo sviluppo di quel modello. La forzata riduzione della produttività a causa della pandemia ha prodotto l’accentuarsi del fenomeno della disoccupazione, l’incremento delle povertà e la crescita delle diseguaglianze sociali con ripercussioni negative anche sul ceto medio. La tentazione è allora quella di ricuperare il tempo perduto con gravi conseguenze per la vita dell’uomo e dell’ambiente.

Quali le gravi conseguenze alle quali alludi e come reagire a questa situazione?

Ho già accennato alle diseguaglianze sociali, che non hanno solo connotati economici (anche se questi connotati rivestono una rilevante importanza), ma che investono anche la possibilità di esercizio dei diritti civili e della partecipazione democratica di un numero sempre maggiore di cittadini e si estendono ai rapporti tra le generazioni e tra i sessi, con il pericolo dell’acutizzarsi della situazione d’inferiorità della donna. Accanto alla questione sociale vi è poi la questione ambientale, che ha assunto negli ultimi decenni caratteri drammatici. Senza assumere atteggiamenti apocalittici, si deve riconoscere con preoccupazione la gravità della situazione attuale: è sufficiente richiamare qui l’attenzione sul problema climatico, i cui tratti pesantemente negativi risultano del tutto evidenti. La reazione a questa situazione esige anzitutto un radicale cambiamento degli stili di vita personali, con il deciso abbandono della logica consumista. Si tratta della necessità di una vera metanoia, del farsi strada nelle coscienze dell’esigenza di rinunciare al perseguimento del semplice utile economico o alla rincorsa alla soddisfazione di bisogni materiali, alcuni dei quali del tutto superflui (talora persino alienanti), per fare spazio all’acquisizione dei beni relazionali e al miglioramento della qualità della vita. 
   

Il cambiamento degli stili di vita personali è senz’altro importante, anche se non facile, ma da solo sembra essere insufficiente. Non ti pare si richiedano profonde riforme strutturali? E quali? E aggiungo: vi è secondo te la volontà politica di fare tali riforme?

Non vi è dubbio che le riforme strutturali a cui alludi siano assolutamente necessarie. Ma vorrei tornare per un momento, prima di rispondere alle domande che mi poni, alla questione degli stili di vita personali. Giustamente tu rilevi che il cambio di mentalità non è facile, e hai perfettamente ragione. Si tratta di rinunciare ad agi e privilegi dati per acquisiti, con la sensazione di uno smacco e di un ritorno indietro. Solo una seria presa di coscienza della gravità della situazione e delle proprie responsabilità, nonché la percezione del grande significato, che rivestono valori, quali la sobrietà, la gratuità e la solidarietà (per non citarne che alcuni) in vista del conseguimento di una forma di realizzazione integrale, che investa l’interiorità della persona a partire dalle esigenze spirituali, possono invertire la rotta, favorendo un cambio effettivo degli stili di vita. Un’importanza del tutto speciale rivestono al riguardo, da un lato, i media chiamati a fornire strumenti di lettura oggettiva della realtà, informando correttamente l’opinione pubblica su quanto sta accadendo e, dall’altro, le agenzie educative che devono aiutare le persone ad assimilare i valori ricordati. Ma tornando, dopo questa lunga digressione, agli interrogativi che mi sottoponi, mi limito a osservare che non vedo finora seri ravvedimenti a livello istituzionale. Emblematico è in proposito quanto è avvenuto a seguito della crisi economica del 2007-2008: al di là di qualche aggiustamento marginale, le cose sono rimaste come prima. È mancata una seria volontà politica di procedere alla ricerca di una vera alternativa di sistema.

Quali, a tuo parere, le ragioni di questa assenza? Si può sperare in una svolta? E a quali condizioni?

Le resistenze al cambiamento sono molteplici e provengono da diverse aree della società. Le più rilevanti sono quelle riferibili al mondo economico. La globalizzazione con l’insorgenza di un mercato unico a livello mondiale dominato dalla presenza di multinazionali sempre più potenti che hanno di mira il solo perseguimento del proprio profitto rende assai difficile, per non dire impossibile, ogni tentativo di cambiamento. A questo si aggiunge l’impotenza della politica, sia perché divenuta una variabile dipendente del sistema economico, sia perché ancora troppo provinciale, e dunque non in grado di dettare con autorevolezza regole di carattere universalistico, valide cioè a livello mondiale. Inoltre, si ha la sensazione che la stessa scienza economica navighi in mare aperto, con evidente difficoltà a rintracciare un progetto globale che offra un indirizzo o individui una prospettiva da perseguire, sia pure nel rispetto della gradualità dovuta ai tempi lunghi della costruzione di un’alternativa. L’uscita dai due sistemi, quello collettivista a economia pianificata dei paesi socialisti e quello neocapitalista (o neoliberista) dell’economia di mercato delle democrazie occidentali e la costruzione di un modello diverso da ambedue non è impresa facile. Si tratta di dare vita alla definizione di un sistema che sappia rispettare, da un lato, le esigenze della libertà, e dunque della democrazia, e di fare proprie, dall’altro, le istanze di giustizia e di solidarietà a partire dai bisogni e dai diritti delle classi più povere e marginali. Il che non può che risultare estremamente complesso.

Un’analoga complessità sembra riproporsi anche nell’approccio a questioni particolari come quella sanitaria e quella della ricerca scientifica, dove sono chiamati direttamente in causa i singoli Stati. Come affrontare tali problemi? E qual è in questo momento la situazione italiana?

A rendere complesse tali situazioni sono soprattutto gli interessi in gioco. Si pensi alla riforma della sanità, dove la pandemia ha reso trasparenti i limiti e le deficienze di un sistema, quello italiano, che pure godeva (e in parte tuttora giustamente gode) di una posizione di prestigio a livello internazionale. Mancanza di personale medico e paramedico e assenza di strutture adeguate, ma anche privatizzazioni e scarsa presenza sul territorio a livello di prevenzione hanno reso grandemente difficoltoso l’approccio a una situazione di grave emergenza. Ma ancora si pensi a quanto è avvenuto in campo farmaceutico a proposito dei vaccini. Il ruolo dominante delle multinazionali, le quali hanno fatto enormi guadagni, e l’egoismo delle nazioni forti che se li sono accaparrati non hanno certo favorito una loro equa distribuzione. Per non dire della ricerca scientifica che nel nostro Paese ha sempre occupato un ruolo marginale soprattutto nell’ambito del finanziamento pubblico. Di fronte a tutto questo, che fare? È anzitutto necessario un intervento deciso degli Stati, che potenzino il Welfare, fissino regole precise al costo dei prodotti farmaceutici e alla loro distribuzione, privilegiando i Paesi più poveri, e favoriscano la ricerca con lo stanziamento di contributi adeguati. Ma questo non basta se – come già si è ricordato in partenza – non si fa strada nella coscienza collettiva un profondo cambio di mentalità e di costume.