di Giannino Piana   

La guerra in corso dovuta all’invasione dell’Ucraina da parte della Russia con l’intento di sottometterla al proprio potere risolleva la questione della legittimità della guerra difensiva, la cui plausibilità è sostenuta anche da molti credenti. Qual è, al riguardo, la posizione della Chiesa?

La condanna, “senza se” e “senza ma” di ogni tipo di guerra rappresenta una costante del magistero papale così come si è sviluppato a partire dalla metà del secolo scorso. Il primo a decretarne l’assoluta irragionevolezza (alienum a ratione) è stato Giovanni XXIII, il quale nell’enciclica Pacem in terris motiva la propria posizione a partire da considerazioni sia legate alla situazione storica – le armi nucleari e batteriologiche costituiscono una minaccia di distruzione dell’intera umanità – sia scaturenti dal messaggio evangelico.

Il “no” alla guerra è poi ribadito con forza dai papi successivi e, nelle circostanze attuali, da papa Francesco, che è ripetutamente intervenuto denunciando la tragedia in corso. A essere messo decisamente sotto processo e a venire del tutto rifiutato è dunque il concetto di “guerra giusta” che pure è stato a lungo uno dei capisaldi della dottrina morale della chiesa – il primo a introdurlo è stato Agostino – e che veniva formulato con il chiaro intento di circoscrivere la legittimità della guerra, prevedendo la possibilità di dichiararla a certe condizioni restrittive (giusta causa, autorità legittima, proporzione tra offesa e difesa, jus ad bellum) e ponendo come limite il rispetto di alcune precise salvaguardie (protezione dei civili, rifiuto dell’uso di certi tipi di armi ecc., jus in bello). La radicalità della posizione del magistero, che supera anche la tradizionale distinzione tra guerra offensiva e guerra difensiva, ambedue ritenute moralmente inaccettabili, non esclude tuttavia l’adozione di interventi, contenuti nel tempo, come le operazioni di polizia internazionale messi in atto da organismi super partes, dove l’uso delle armi è destinato a contenere violenze e genocidi e, se possibile, ad arrestare il processo bellico, creando le premesse per avviare trattative diplomatiche con l’obiettivo di ripristinare la pace.

Secondo te, allora, non è possibile parlare di “legittima difesa”, neanche quando in gioco vi sono valori come l’autodeterminazione di un popolo che subisce l’occupazione di una potenza straniera?

Va detto intanto, in via preliminare, che il concetto di “legittima difesa” applicato al singolo – la difesa di sé – non è di per sé evangelico. Alla “legge del taglione” (“Occhio per occhio… dente per dente”), con la quale si regolavano nel mondo ebraico tanto i rapporti interpersonali che sociali, il discorso della montagna (Matteo, 5) oppone il dovere di “porgere l’altra guancia”, sollecitando a ricambiare il male con il bene. Diverso è il caso della difesa dell’altro o della propria terra fatta oggetto di ingiusta occupazione da parte di una potenza straniera. Il dilemma che qui si affaccia è rappresentato dal conflitto tra libertà e vita, un dilemma non facilmente solvibile. Stante il ripudio di ogni forma di guerra, le vie da percorrere non possono tuttavia che essere quella segnalata, gli interventi cioè di polizia internazionale, e l’adozione delle tecniche di difesa nonviolenta, in realtà poco conosciute e tanto meno praticate, le quali meriterebbero invece una più seria considerazione con il coinvolgimento, dopo serio addestramento, della popolazione civile. Il “no” alla guerra, che ha un alto (e irrinunciabile) significato profetico deve fare spazio a una valutazione politica, le cui scelte devono avere sempre come obiettivo il “male minore” o la “riduzione del danno”.

Che dire allora della fornitura di armi all’Ucraina da parte degli Stati Uniti e dell’Europa, incluso il nostro Paese? Ti sembra un comportamento accettabile o che va radicalmente condannato?

Sono decisamente contrario a questa operazione, la quale non fa che alimentare la guerra. Il fatto che non ci si esponga direttamente, intervenendo militarmente – si pensi all’eventuale mobilitazione della Nato – mi sembra una forma di ipocrisia che va stigmatizzata con forza: si dà luogo, infatti, a una guerra per procura senza una partecipazione diretta, e dunque senza il pericolo di perdita delle vite umane di propri compatrioti. Come è, del resto, ipocrita – aggiungo – continuare a finanziare, nel contempo, i russi con l’acquisto del gas per mera convenienza economica, cioè per evitare pesanti sacrifici alle popolazioni europee. Vi è poi da rilevare, facendo direttamente riferimento alla situazione italiana, che è difficile sostenere – come alcuni affermano – che non sia stata in proposito violata la Carta costituzionale, la quale dichiara senza esitazione il “ripudio della guerra” (art. 11), di ogni guerra senza alcuna eccezione. La distinzione tra “guerra offensiva” e “guerra difensiva”, che qualcuno ha sollevato, non gode di alcuna plausibilità. La posizione assunta dai Padri costituenti è radicale e non può andare soggetta ad alcun compromesso. Per questo, la produzione e il commercio delle armi costituisce già di per sé un atto immorale, soprattutto se comporta, come avviene anche nel nostro Paese (e in quasi tutti i Paesi occidentali), un costante aumento della percentuale di bilancio destinata alle spese militari e a scapito della fornitura di altri servizi ai quali andrebbe riservata un’assoluta precedenza. Sostenere d’altronde, come alcuni tuttora fanno, che la corsa agli armamenti con l’attuale escalation eserciti una funzione di semplice deterrenza è del tutto irrealistico, se si pensa a quanto sta avvenendo nel conflitto Russia-Ucraina.

Un’ultima domanda: che cosa occorre fare per evitare di incorrere in situazioni analoghe a quella del conflitto Russia- Ucraina?

Ho appena accennato al carattere illusorio della funzione di deterrenza. Lo slogan “se vuoi la pace, prepara la guerra” (si vis pacem para bellum) va del tutto ribaltato in “se vuoi la pace, prepara la pace” (si vis pacem para pacem). Il che implica la riduzione degli armamenti dando corso a un disarmo controllato, il divieto della fabbricazione di alcune tipologie di armi – si pensi non solo all’atomica, ma anche alle armi chimico-batteriologiche – e un severo controllo della loro commercializzazione, evitando soprattutto di fornirle a popoli belligeranti. Ma la promozione della pace non può (e non deve) semplicemente accontentarsi del ripudio della guerra e della riduzione della fabbricazione e della distribuzione delle armi. Deve fare sempre più spazio, in un’epoca di globalizzazione come quella in cui viviamo, allo sviluppo di relazioni internazionali fondate sulla giustizia, perciò sul superamento delle diseguaglianze tra i popoli, e alla crescita di una cultura della pace che, oltre a coltivare iniziative come la disobbedienza civile, l’obiezione di coscienza, nonché le già ricordate tecniche di difesa non violenta, metta in atto una vasta azione educativa fondata su valori come la riconciliazione, la cooperazione e la solidarietà che creano le premesse per la crescita di rapporti pacifici tra i singoli e tra i popoli. Si apre qui un importante capitolo di riflessione, che merita un discorso a sé stante che non può essere qui debitamente affrontato.