di Giannino Piana
Il quotidiano “L’Avvenire” del 29 novembre scorso (pp. 6-7) riportava i risultati di un’inchiesta realizzata dalla giornalista francese Louise Audibert e pubblicata originariamente su “La Croix Hebdo” che portava alla luce un impressionante traffico internazionale di embrioni destinati alla maternità surrogata. Puoi dirci di che cosa si tratta? E come mai questo allarmante reportage ha avuto scarsissima risonanza sulla stampa nazionale?
L’inchiesta della giornalista francese è senz’altro – come tu dici – impressionante e allarmante. Si tratta di un traffico di embrioni che vengono prelevati da laboratori di Paesi asiatici – l’India e il Nepal in particolare –
e che vengono portati in Paesi dell’Europa orientale – Ucraina, Georgia, Repubblica Ceca, ma anche Grecia e Cipro (e non solo) – dove la maternità surrogata commerciale è consentita dalla legge e dove esistono donne disponibili a offrire il proprio utero in affitto, per venire incontro a coppie omosessuali ed eterosessuali, appartenenti in larga misura ai Paesi più avanzati di Europa, non esclusa l’Italia, che ricorrono a questa procedura per avere dietro pagamento un figlio non potendo averlo in altro modo. Il processo è in sé molto semplice: i corrieri, che offrono il servizio di trasporto a prezzi sempre più competitivi (circa 2000 euro per prestazione) e che sono legati ad alcune agenzie occidentali, si recano nei Paesi segnalati dove, sfruttando la complicità di sanitari locali, prelevano gli embrioni crioconservati. Il trasporto avviene per via aerea come bagaglio a mano da tenere in cabina, senza che vi sia possibilità di controllo, in quanto gli accordi sottoscritti con l’Associazione internazionale del trasporto aereo, prevedono che sia sufficiente avere la dichiarazione di una clinica che attesti trattarsi di materiale organico perché non si possa intervenire a fare verifiche. Gli embrioni vengono consegnati alle cliniche che li hanno ordinati e sono poi impiantati nell’utero di una donna, che portata a compimento la gravidanza, affida il bambino alla coppia che l’ha ordinato. Il fatto è di una gravità sconcertante, per cui è difficile capire la scarsa risonanza, o addirittura il silenzio, che l’inchiesta ha avuto sulla grande stampa italiana e più in generale sui media. Forse siamo di fronte a quel declino del senso morale, che si rende trasparente soprattutto in presenza di questioni di grande rilevanza sociale. La cultura dell’indifferenza, che papa Francesco denuncia con forza, trova qui un’espressione esemplare.
L’episodio descritto getta ombre pesanti sulla pratica della maternità surrogata. Quali le ragioni più rilevanti della negatività?
Prima di rispondere voglio aggiungere qualche altra importante informazione che si ricava dall’inchiesta della giornalista francese e che riguarda la gestione economica della maternità surrogata da parte delle cliniche che la praticano in forma commerciale. Secondo la Biotex-com, che è una delle aziende leader che operano in tale ambito, il listino prevede in Ucraina un contratto che si aggira attorno ai 70.000 euro (in altri Paesi la cifra è ancora più elevata), di cui 20.000-30.000 vengono consegnati alla madre che porta a termine la gravidanza; il resto è incamerato dalla clinica. Come è facile intuire si tratta di un business fiorente, un vero mercato planetario dietro il quale esistono enormi interessi economici. Venendo alla tua domanda, diverse sono le ragioni che motivano la gravità della pratica dell’utero in affitto. Accanto al fatto già ricordato che siamo di fronte a un prodotto delle logiche di mercato – talora con il sostegno di poteri criminali internazionali – ciò che soprattutto colpisce è lo sfruttamento della donna, la mercificazione del suo corpo, e perciò la radicale espropriazione della sua dignità. È questo l’aspetto più inquietante della maternità surrogata, se si considera – come è ampiamente documentato – che la stragrande maggioranza delle donne che si sottopongono a tale pratica vivono in condizioni di povertà e si assoggettano a essa per ragioni economiche, rinunciando alla loro libertà per divenire di fatto schiave, comprate e sfruttate da chi è invece in possesso di consistenti possibilità economiche. Una pratica incivile, dunque, che trasforma la vita in merce acquistabile e che è espressione di una volontà di possesso, la quale comporta una totale disattenzione – è questo un altro aspetto rilevante della negatività – ai diritti dei bambini. Un segnale significativo della presa di consapevolezza della gravità di tale pratica è costituito dalla chiara contrarietà espressa nel nostro Paese da Arcilesbica e dall’esistenza di un dissenso piuttosto allargato anche all’interno dei movimenti LGBT.
E in Italia qual è la situazione? Al di là della legge 40 che proibisce la maternità surrogata, come stanno di fatto le cose?
Hai giustamente richiamato l’attenzione sulla legge 40 del 2004, per la quale la maternità surrogata è considerata un reato, e chi la pratica o la pubblicizza è soggetto a pene assai severe. Ciò non toglie che sussista, per chi è in grado di sostenere economicamente l’impresa, la possibilità di aggirare o scavalcare la legge rivolgendosi a un Paese dove tale pratica è consentita: non sono pochi (e sono in costante aumento) gli italiani che ricorrono a questo escamotage, mettendosi al riparo dall’intervento giudiziario. Di per sé, non sarebbe del tutto impossibile, anche in questo caso, il rinvio a giudizio – alcuni pubblici ministeri (pochi) hanno formulato questa istanza – ma trattandosi di reato commesso da un cittadino italiano all’estero, la possibilità di procedere è legata a una precisa richiesta da parte del ministro di giustizia (cosa che non mi risulta si sia mai verificata). Inoltre, la norma contenuta nella citata legge 40 (art. 12, comma 6) che riguarda sia la commercializzazione di gameti o di embrioni sia la surrogazione di maternità non brilla per chiarezza, e si presta di conseguenza a interpretazioni giurisprudenziali diverse e contrastanti. A subire la punizione – si legge nel testo della legge – è “chiunque, in qualsiasi forma, realizza, organizza o pubblicizza” tali pratiche. Il che sembrerebbe lasciare intendere – come sostengono diverse sentenze – che sanzionabile è soltanto il personale della clinica che mette in atto la maternità surrogata e non coloro – i cosiddetti “genitori di intenzione” – che fruiscono del servizio. Come si vede le cose sono assai complicate, e le vie di fuga ampiamente percorribili.
Un’ultima domanda: data l’oggettiva gravità della pratica ritieni che si debba intervenire a livello internazionale con un provvedimento che preveda la sua messa al bando?
Personalmente sarei d’accordo. Ho molto apprezzato a tale proposito la proposta avanzata in Parlamento dall’on. Mara Carfagna, nella quale si chiede che l’Italia si faccia promotrice di un’iniziativa per la messa al bando della maternità surrogata attraverso una Convenzione internazionale, in nome dei principi dell’indisponibilità del corpo umano e della protezione dei diritti dell’infanzia. Dubito tuttavia che tale proposta venga presa in considerazione, stante l’entità degli interessi in gioco.