di Giannino Piana

L’art. 41 della nostra Costituzione attribuisce all’attività economica pubblica e privata fini sociali e afferma che tale attività non può svolgersi in contrasto con l’utilità sociale, assegnando alla legge i controlli perché questo si verifichi. Come si possono perseguire oggi questi obiettivi in presenza di un sistema economico in cui ha il sopravvento la finanziarizzazione e in un contesto di accentuata globalizzazione?

Le finalità sociali attribuite dalla nostra Costituzione all’attività economica sono oggi fortemente minate dai processi che vengono qui giustamente richiamati.

Il primo processo – quello della finanziarizzazione – ha gravemente compromesso lo stesso sistema capitalista, sconvolgendone radicalmente la logica con gli effetti negativi che si sono fatti sentire in occasione della crisi del 2007-2008. L’economia finanziaria, che era in origine concepita come strumento al servizio dell’economia  produttiva di beni e di servizi, ha assunto, infatti, grazie a tale processo, il sopravvento, dando vita a operazioni del tutto immorali che, oltre a generare ricchezze impensate nelle mani di pochi – nascono di qui soprattutto le profonde diseguaglianze della nostra società – sono anche del tutto improduttive. Si tratta di un meccanismo perverso per il quale il danaro riproduce se stesso, senza alcun avanzamento della situazione economica reale. Ma non si può attribuire la crisi attuale esclusivamente a questo fattore. Essa è, più radicalmente, provocata dall’implosione del sistema capitalista e del modello di sviluppo che lo ha ispirato; implosione che ha assunto connotati sempre più inquietanti a seguito dell’avanzare – è questo il secondo processo citato – del fenomeno della globalizzazione. L’affermarsi di un mercato senza regole – mercato che si è persino trasformato in “pensiero unico” divenuto criterio di valutazione del comportamento umano nei vari ambiti della vita – al di là dell’accentuarsi delle diseguaglianze già accennate è la causa più rilevante del dissesto ambientale in atto che la recente pandemia ha reso ancor più evidente.
                    

Come uscire da questa situazione? Vi sono, a tuo avviso, proposte alternative alle quali fare ricorso?

Non sono, al riguardo, ottimista. La crisi che attraversiamo non è puramente congiunturale ma strutturale, e – purtroppo – ciò che finora si è fatto, soprattutto dopo il 2008, altro non è stato che il tentativo di riaggiustare il sistema con qualche intervento correttivo che consentisse di mantenerlo in vita. In realtà – come tu stesso accenni – vi è invece bisogno di proposte alternative, che puntino su un modello di crescita qualitativa (e non di sviluppo puramente quantitativo) capace di dare vita a un sistema ecosostenibile ed equo-sostenibile. Esistono senza dubbio autorevoli economisti che da tempo insistono sulla necessità di una radicale inversione di rotta offrendo suggerimenti preziosi per metterla in atto, ma non sembrano finora ascoltati da chi gestisce il potere economico. Per rimanere in ambito italiano trovo interessanti le proposte di Fabrizio Barca e di Luigino Bruni, che avanzano ipotesi diverse di cambiamento in parte integrabili. Il tema è tuttavia talmente vasto da meritare una riflessione apposita. Lo si potrà forse riprendere in un’altra occasione in termini più puntuali.

Sposto a questo punto l’attenzione su un’altra questione, apparentemente diversa ma in realtà collegata anche al tema economico. Si tratta del concetto di “bene comune” spesso identificato con i “beni di uso comune”. Come distinguere i due concetti?

I due concetti non sono assimilabili, anche se sussiste tra loro un certo collegamento. “Bene comune” è un concetto antico, che risale alla tradizione della filosofia greca – non si può non citare a tale proposito Aristotele, il quale pone al centro della sua riflessione sulla politica il bene della polis – e che è ripreso con rigore da Tommaso d’Aquino, il quale, collegandolo strettamente all’idea di “giustizia sociale”, fa di esso il perno attorno cui deve ruotare la vita economico-sociale e il fine dell’azione politica. Purtroppo le spinte individualiste che si sono sviluppate a partire dagli inizi della modernità hanno fatto sì che tale categoria diventasse sempre più anacronistica fino a essere sostituita con il concetto di “interesse generale”; un concetto che viene ricavato dal basso come risultato della mediazione degli interessi soggettivi. Il concetto di “beni di uso comune” risente di questo cambio di prospettiva. Ma con esso, più propriamente, si fa riferimento a una serie di beni che, corrispondendo a bisogni e diritti fondamentali della persona umana, vanno garantiti a tutti. Significativa è, anche per le guerre attualmente in corso, la rivendicazione del diritto all’acqua, un “bene pubblico” di cui ogni uomo e ogni popolo deve poter fruire. Il collegamento con il tema economico è dunque – come ricordavi – in ambedue i casi, fuori discussione.

Come orientare il profitto di un’impresa privata a beneficio dei lavoratori e della comunità all’interno della quale la sua attività si sviluppa?

Torniamo qui più direttamente alla questione economica, e specificamente alle modalità di gestione dell’impresa privata. Non sono personalmente d’accordo con chi nega la possibilità di parlare di profitto aziendale. Credo, infatti, sia doveroso fare i conti con esso, se si vogliono incrementare gli investimenti e favorire la ricerca e l’innovazione tecnologica. Ma il tema del profitto non può essere ristretto al solo ambito aziendale; va inserito nel contesto più vasto della società cui si appartiene, e in primis dei lavoratori che rappresentano la più importante risorsa per l’azienda. Per questo si parla oggi di “profitto sociale” e cominciano a farsi strada, sia pure timidamente (e non senza qualche equivoco), esperienze come quelle del bilancio sociale o della responsabilità sociale di impresa (Rsi), le quali hanno come obiettivo quello di verificare i benefici che l’azienda riversa sulla società e sui lavoratori. Il cammino è ancora lungo, e le modalità per dare concretezza a queste ricadute non sono ancora ben configurate. Ciò non toglie che esistano (e vengano moltiplicandosi) tentativi pilota che meritano di essere seguiti con interesse.

Veniamo, per chiudere, a un problema particolare, quello della produzione di armi. Si può affermare che essa costituisca sempre, sia per i datori di lavoro che per i lavoratori, un’azione immorale?

Non ho intanto dubbi che la produzione di armi rappresenti oggi nel nostro Paese, per le proporzioni che riveste, un fenomeno gravemente immorale. Non mi sembra tuttavia si possano equiparare del tutto le responsabilità dei datori di lavoro e dei lavoratori, pur riconoscendo che questi ultimi e con essi il sindacato, in forza della preoccupazione (anche giustificata) di difendere i posti di lavoro, non si sono finora sufficientemente impegnati in un’azione di contrasto a tale tipo di produzione proponendo con coraggio forme praticabili di riconversione. Non ho dubbi sull’immoralità della produzione di alcune tipologie di armi – quelle atomiche, chimiche, batteriologiche, mine vaganti ecc. – che andrebbero totalmente bandite. Non mi sento però di rifiutare la produzione di qualsiasi tipo di armi: penso a quelle da assegnare in dotazione a corpi come la polizia o i carabinieri, che hanno il compito di mantenere l’ordine pubblico. In questo caso, dovrebbe in ogni caso trattarsi di una produzione assai ridotta di armi convenzionali da gestire sotto il diretto (e rigoroso) controllo delle autorità dello Stato.