di Giannino Piana
L’ultima enciclica di papa Francesco “Fratelli tutti” ha avuto un’ampia risonanza nell’opinione pubblica. Puoi illustrarci i concetti fondamentali?
I concetti fondamentali dell’enciclica sono riconducibili a due grandi temi, quello della fraternità universale e quello dell’amicizia sociale, due modalità diverse e complementari di vivere la carità. Il primo tema – la fraternità universale – riguarda il vincolo che ci unisce come fratelli all’intera umanità e ci rende responsabili del destino di tutti gli uomini. Il secondo – l’amicizia sociale – ha come oggetto le persone con cui entriamo direttamente in contatto e con le quali si sviluppano relazioni immediate nei vari ambiti della vita associata.
Si tratta di due dimensioni dell’amore il quale implica nello stesso tempo profondità ed estensione. La carità va, infatti, esercitata nei confronti di ciascuno e nei confronti di tutti. Queste due dimensioni interdipendenti e reciprocamente interagenti ritornano, di fatto, con insistenza nel testo dell’enciclica, dove “universale” e “particolare” sono concepiti come realtà co-necessarie: il vero universale – non l’universalismo astratto e omologante – è quello che fa spazio al particolare, assumendolo e valorizzandolo; a sua volta, il vero particolare è quello che, riconoscendo la propria parzialità, si apre all’universale. Questo significa che la “prossimità” non esaurisce la “fraternità”, la quale ha un orizzonte assai più ampio, in quanto si estende – come si è detto – all’intera umanità. E che è allora necessario trovare il giusto equilibrio tra i due livelli.
L’enciclica non manca di segnalare gli ostacoli che si frappongono oggi alla concreta adesione a questi valori. Quali i più rilevanti?
Papa Francesco introduce in proposito una lunga rassegna di fenomeni negativi che impediscono l’adesione ai valori ricordati: dai nazionalismi ai populismi; dalla xenofobia e dal razzismo al mancato riconoscimento dei diritti umani; dalle crescenti diseguaglianze sociali alle derive della comunicazione digitale; e infine dalle guerre alla colonizzazione culturale delle aree geografiche più povere. Ma il pontefice non si limita a denunciare i fenomeni elencati; risale soprattutto alle cause socioculturali e sociopolitiche, che stanno alle loro radici. Tra queste ultime particolare attenzione egli riserva, da un lato, alla perdita della coscienza storica, che si traduce in una forma di “presentismo”, il quale produce lo svuotamento dei valori e l’impossibilità di elaborare progetti per il futuro; e, dall’altro, all’affermarsi del sistema economico capitalista che crea forti sperequazioni tra i popoli e tra le classi sociali alimentando la violenza e indebolendo il potere politico, asservito in larga misura ai poteri forti dell’economia e dell’informazione. Il che fa sì che ad avere il sopravvento sia una cultura dell’immediatezza e della ricerca degli interessi individuali, da cui è del tutto estranea ogni tensione morale.
Come uscire da questa situazione? Quali sono i presupposti antropologici e teologici cui fare riferimento?
Non è facile rispondere a queste domande. L’enciclica offre al riguardo indicazioni preziose, mettendo anzitutto l’accento sul fatto che fraternità universale e amicizia sociale affondano le loro radici nel riconoscimento dell’assoluta dignità di ogni persona umana, e che l’imperativo morale che da questo scaturisce è quello della solidarietà, la quale non può ridursi al compimento di alcuni gesti di generosità, ma implica la lotta contro i meccanismi socioeconomici ispirati ai soli criteri della libertà di mercato ed esige l’impegno a valutare il proprio agire sulla base del criterio del bene comune. Conseguenza di questi presupposti sono il diritto di tutti a fruire dei beni della terra per soddisfare i propri bisogni e la promozione dei diritti sociali e in particolare dei diritti delle culture.
Al di là di queste motivazioni di ordine razionale, quale significato riveste il richiamo alla parabola del buon samaritano?
La parabola del buon samaritano che papa Francesco richiama, con un’attenzione particolare alla novità evangelica, conferisce ai concetti di fraternità e di amicizia un’effettiva concretezza e radicalità. A venire contrapposti sono qui due comportamenti che riflettono due stili di vita, due veri e propri modi di essere-al-mondo. Da un lato l’indifferenza rappresentata dal levita e dal sacerdote; dall’altro, la prossimità messa in atto dal samaritano. In un bell’articolo di commento all’enciclica apparso su Avvenire Luigino Bruni ricordava che si tratta di una prossimità incentrata sulla “vittima” e che essa definisce il contenuto fondamentale della carità. Il fatto che il samaritano sia a tutti gli effetti un estraneo, sul piano religioso, sociale e persino geografico – oggi si direbbe un lontano o un avversario, – dice quanto la carità coincida con il dono di sé e la ricerca del bene dell’altro, superando pregiudizi, interessi, barriere sociali e culturali. E’ dunque qui richiamato il significato vero della fraternità universale, la quale implica che ci facciamo vicini a chiunque è in stato di difficoltà senza domandarci se fa parte della nostra cerchia di appartenenza.
Assai rilevante è il peso che l’enciclica attribuisce alla politica. Quali gli indirizzi da essa suggeriti? E quale ruolo riveste la promozione della pace?
La politica, che il papa non esita a definire l’espressione più alta dell’esercizio della carità, deve oggi, secondo l’enciclica, superare tre scogli che le impediscono di agire correttamente: l’economia neocapitalista, il populismo e la tecnocrazia. Ciò può avvenire soltanto se essa ricupera la propria centralità e la propria indipendenza, perseguendo il bene comune attraverso il cambiamento delle strutture che creano condizioni di diseguaglianza nei rapporti tra i popoli, le classi sociali e le generazioni e aprendosi a un orizzonte universalistico con un’attenzione privilegiata nei confronti delle nazioni più povere e delle generazioni future alle quali occorre consegnare un mondo abitabile. La pace, cui sono dedicate pagine tra le più belle dell’enciclica è il frutto più immediato di questa azione. Essa costituisce una permanente conquista, che reclama l’esercizio di alcuni valori – dalla verità alla pazienza, dalla riconciliazione al perdono, fino alla gentilezza -; ma reclama anche l’adozione di misure concrete di soluzione dei conflitti mediante il dialogo – l’enciclica attribuisce particolare importanza alla “cultura del dialogo” – e attraverso forme di negoziato e di arbitrato.
E il ruolo delle religioni? In particolare del cristianesimo?
Giustamente richiami l’attenzione sul ruolo delle religioni prima che del cristianesimo. Lo stimolo alla stesura dell’enciclica è, infatti, venuto a papa Francesco – è lui stesso a dichiararlo – dall’incontro avvenuto nel febbraio 2019 ad Abu Dhabi con il grande imam Ahamad Al-Tayyeb per ricordare che Dio “ha creato tutti gli esseri umani uguali nei diritti, nei doveri e nella dignità e li ha chiamati a convivere come fratelli tra loro”. Questo richiamo alla comune paternità divina dell’umanità conferisce un timbro consistente alla fraternità. Le religioni diventano perciò un fattore importante per la crescita dell’intera società. Di qui la giusta rivendicazione della loro presenza nel dibattito pubblico, nel pieno rispetto dell’autonomia della sfera politica. Ma la condizione fondamentale per un esercizio fruttuoso del loro compito è il dialogo e la collaborazione tra di esse. Tutto questo senza sottovalutare l’apporto specifico del vangelo, che rappresenta un riferimento significativo per dare un solido fondamento alla dignità umana e all’amore universale.