di Giannino Piana
Il recente Documento della Congregazione per la dottrina della fede dal titolo Samaritanus Bonus sulla cura delle persone nelle fasi critiche e terminali della vita ha suscitato vivaci reazioni nel mondo laico e il silenzio di gran parte del mondo cattolico. Che dire? Quali i contenuti del dissenso nei confronti del documento? E quali le ragioni del generale disagio?
Il Documento della Congregazione vaticana sulle questioni relative al fine vita è un documento ampio e complesso.
Esistono parti estese e di grande interesse che riguardano la cura e l’accompagnamento del malato terminale e pagine di importante significato teologico come quelle dedicate all’esperienza del Cristo sofferente e al “cuore che vede” del Samaritano. Ma la parte oggetto di interventi critici è quella di carattere strettamente etico riguardante l’insegnamento del magistero. In gioco vi sono qui problemi di grande delicatezza come l’eutanasia e il suicidio assistito sui quali il Documento vaticano ribadisce la dottrina tradizionale del magistero con accenti particolarmente forti, che non potevano che suscitare le reazioni ricordate. L’eutanasia e il suicidio assistito vengono condannati in termini assoluti con parole durissime – l’eutanasia è definita “un crimine contro la vita umana”, “un atto intrinsecamente malvagio”, “una grave violazione della legge di Dio”, “un attentato contro l’umanità” – e viene, di conseguenza, rifiutata come “grave peccato” qualsiasi forma di cooperazione formale o materiale all’esecuzione di tali atti. Una condanna, dunque, “a tutto campo” e senza eccezioni, che sembra non tenere in considerazione la varietà e la complessità delle situazioni esistenziali, per le quali si esigerebbe una declinazione più articolata dei principi e la messa in atto di opportune mediazioni.
La drasticità dei giudizi espressi non sembra contraddire la maggiore duttilità del magistero di papa Francesco? E quali i motivi di tale durezza?
In realtà, al di là del linguaggio usato, il contenuto del Documento vaticano riflette il pensiero di papa Francesco, il quale sulle questioni inerenti la tutela della vita – dalla fase iniziale a quella terminale – ha sempre assunto posizioni piuttosto drastiche. I suoi giudizi sull’aborto e sull’eutanasia sono sempre stati netti e radicali. Le ragioni di questa drasticità vanno ricercate negli odierni ostacoli culturali alla tutela della vita, riconducibili a quella che il Documento definisce come la “prospettiva antropologica utilitaristica”, la quale non riconosce alla vita un valore in sé, ma distingue tra vita e vita, tra una vita che merita di essere accolta e promossa e una vita che è invece destituita della sua qualità umana, e che viene perciò considerata insignificante e inutile, dunque passibile di essere soppressa. L’allusione è qui a quella “cultura dello scarto” che papa Francesco denuncia con insistenza come uno dei mali più preoccupanti della società attuale.
Non manca tuttavia nel Documento vaticano una forte condanna dell’accanimento terapeutico. Come si concilia questa condanna con la radicalità del “no” all’eutanasia e al suicidio assistito?
È vero. La condanna dell’accanimento terapeutico è forte e puntuale. Viene a tale proposito denunciato il rischio che le tecnologie sempre più sofisticate, frutto dall’enorme e costante progresso verificatosi negli ultimi decenni in campo biomedico, vengano utilizzate in modo sproporzionato e disumanizzante soprattutto nelle fasi più critiche e terminali della vita. A venire decisamente rifiutati sono pertanto interventi futili e dannosi, che prolungano la vita fisica dequalificandola nella sua dimensione propriamente umana. La differenza tra il rifiuto di tali comportamenti e il consenso all’eutanasia e al suicidio assistito è in linea di massima evidente, anche se sussistono poi “situazioni di frontiera” nelle quali è difficile tracciare con precisione il confine. A tale proposito non si può non rilevare una certa incongruenza nel Documento vaticano: da un lato, infatti, vengono espresse valutazioni pesantemente negative nei confronti del criterio della “qualità della vita”, considerato inaffidabile per la varietà delle interpretazioni cui può andare soggetto – si pensi alla lettura in chiave utilitaristica –; dall’altro, esso viene, almeno implicitamente, utilizzato per giustificare il “no” all’accanimento terapeutico. La ragione di tale “no” va, infatti, ricercata in una concezione della vita umana dove a contare non è soltanto il dato biologico, ma è anche (e soprattutto) la dimensione personale; e dove, di conseguenza, il giudizio morale circa l’attività medica deve fare riferimento al criterio della “qualità della vita” (concepito ovviamente in una logica di umanesimo integrale).
C’è un altro aspetto del documento che solleva perplessità. Si tratta della posizione estremamente rigida che esso assume nei confronti della legislazione civile. Che valutazione se ne può dare? Non è forse doveroso distinguere i piani?
Il giudizio sulle leggi che legalizzano l’eutanasia e che giustificano il suicidio assistito e l’aiuto che viene a esso fornito è molto pesante. Il valore della vita umana è considerato – così si legge nel Documento vaticano – “una verità basilare della legge morale naturale e un fondamento essenziale dell’ordine giuridico”. La vita è infatti – è ancora il Documento vaticano a rilevarlo – “il primo bene perché condizione della fruizione di ogni altro bene”. Ora non vi è dubbio che tali affermazioni contengano elementi importanti di verità. Ma la loro astratta assolutizzazione non tiene conto della complessità delle situazioni e rischia di provocare, laddove viene praticata, pesanti effetti negativi. E questo soprattutto sul terreno della legislazione civile, dove tra gli estremi opposti di leggi proibizioniste e di leggi radicalmente libertarie vi è uno spazio per soluzioni intermedie destinate ad affrontare concretamente i vari casi che vengono emergendo nella realtà. Inoltre – come giustamente rilevi – è importante distinguere il piano dell’etica cristiana da quello della legislazione civile, andando in quest’ultimo caso alla ricerca di un ethos condiviso, sul quale fondare gli interventi di ordine giuridico.
Un’ultima domanda: vi sono nel Documento elementi di novità di particolare interesse? E quali?
Vi sono senza dubbio nel Documento vaticano degli elementi significativi che meritano attenzione. Oltre a quelli già ricordati, vanno citati: l’importanza assegnata al “prendersi cura” del malato in tutte le fasi dello sviluppo della malattia – si danno, infatti, malati inguaribili, ma non esistono malati incurabili –; l’attenzione, nella formulazione del giudizio morale, alle situazioni soggettive di solitudine e disperazione, nelle quali la responsabilità personale di gesti estremi come quelli ricordati è limitata o in alcuni casi del tutto assente; e, infine, la sottolineatura dell’alto significato delle cure palliative, che rispondono al bisogno del paziente che si trova in situazioni particolarmente critiche di sentirsi curato, concorrendo in tal modo al ridimensionamento della domanda eutanasica ed evitando l’accanimento terapeutico. Un aspetto, infine, di indubbia novità – è giusto ricordarlo – è rappresentato dal modo con cui viene affrontata la questione dell’alimentazione e dell’idratazione. Il criterio adottato dal Documento vaticano è quello della proporzionalità, con la sottolineatura che, pur dovendo normalmente tali presidi essere forniti, si danno situazioni nelle quali la loro somministrazione va sospesa in quanto l’organismo del paziente non è più in grado di assorbirli o di metabolizzarli e la loro somministrazione risulterebbe dannosa o potrebbe provocare sofferenze inaccettabili. Questa apertura rende possibile l’inserimento delle due pratiche, sia pure a precise condizioni, anche nel testamento biologico.