di Giannino Piana

Grande scalpore ha suscitato nell’opinione pubblica, con reazioni di segno opposto, la recente presa di posizione del Ministero della salute a proposito della gestione dell’interruzione volontaria farmacologica della gravidanza con RU486. Quali sono a tuo parere gli aspetti più significativi di questi nuovi dispositivi?

La novità più significativa introdotta dalla circolare del Ministero della salute, accanto alla dilatazione di due settimane del tempo in cui è possibile ricorrere all’interruzione farmacologica della gravidanza,

è costituita dal passaggio dall’uso limitato del farmaco al regime di ricovero ospedaliero alla possibilità del ricorso al farmaco – per usare le parole stesse della circolare – “presso strutture ambulatoriali pubbliche adeguatamente attrezzate, funzionalmente collegate all’ospedale e autorizzate dalla Regione, nonché consultori oppure day hospital”.

Il provvedimento è stato assunto a seguito del parere favorevole espresso dal Consiglio superiore della Sanità con motivazioni che vanno dalla rassicurazione offerta dai dati scientifici acquisiti circa la sicurezza dell’intervento (dati in verità non esplicitati con troppa chiarezza) alla sottolineatura dell’importanza dell’adeguamento ai diversi Paesi d’Europa che hanno da tempo adottato tale prassi. Le reazioni opposte cui accenni erano facili da prevedere: da un lato, vi è chi inneggia al provvedimento considerato come una maggiore facilitazione del ricorso all’aborto e un sostegno all’autodeterminazione della donna; e chi, dall’altro, paventa una grave deriva morale perché si favorirebbe in tal modo il moltiplicarsi degli aborti con uno schiaffo alla tutela della vita.

Tra gli interventi critici nei confronti del provvedimento accenti di particolare dissenso sono venuti dalla Conferenza episcopale italiana e da interventi di singoli vescovi che hanno duramente contestato la circolare del Ministero. Quali i motivi di tale opposizione?

La ragione di fondo dell’opposizione della Cei è l’allentamento della difesa della vita. Ma, accanto a questa ragione, che rimane sullo sfondo, i vescovi insistono, da una parte, sul fatto che l’assenza di ospedalizzazione rende più precaria la tutela della salute della donna; e rilevano, dall’altra, come la donna venga lasciata a se stessa, in una condizione di radicale solitudine nel momento in cui si trova a vivere una situazione particolarmente delicata e, per molti aspetti, traumatica. Ha messo bene in evidenza questa duplice ragione un intervento del card. Gualtiero Bassetti, presidente della Cei, il quale ricorda che, grazie alla liberalizzazione consentita dalla circolare ministeriale, la donna viene “lasciata ancor più a se stessa, visto che non ne viene mantenuto nemmeno il ricovero necessario per garantire la sorveglianza sulla sua salute”.

Il giornale cattolico Avvenire, che è ripetutamente intervenuto con particolare accanimento sulla questione, riporta, oltre alle ragioni ricordate della Cei, altre ragioni. Quali?

Per più settimane si sono susseguiti su Avvenire interventi di ginecologi e operatori sanitari in genere, di giuristi e di donne impegnate sia sul fronte politico che su quello del volontariato. A essere messo sotto processo, oltre allo scavalcamento della pratica clinica – vi è chi insiste sul rischio per la donna che verrebbe confermato dall’esistenza di alcuni casi (pochi) di decesso – è soprattutto la possibilità di accedere all’aborto nei consultori, violando – si osserva – la legge 194/78 che assegna a essi tutt’altra finalità. Come infatti recita l’art. 2 della legge sulla tutela sociale della maternità e sull’interruzione volontaria di gravidanza, il consultorio è chiamato a svolgere un ruolo di sostegno e di assistenza alla gestante “contribuendo a far superare le cause che potrebbero indurre la donna all’interruzione della gravidanza”. Il fatto che si attribuisca al consultorio un ruolo alternativo a quello previsto costituisce un grave vulnus, che esige si proceda a una modificazione della legge facendo intervenire direttamente il Parlamento.

Le motivazioni addotte per contestare il dispositivo introdotto non hanno tutte lo stesso valore. Tu che cosa pensi a tale proposito?

Leggendo gli interventi di queste ultime settimane, più che il contenuto mi ha impressionato il tono spesso apocalittico degli interlocutori. Nonostante la delicatezza e la complessità della questione, penso sia necessario mantenere da tutte le parti un vero controllo razionale, opponendo a ragioni altre ragioni senza la presunzione di possedere la verità assoluta. Personalmente l’obiezione che trovo più seria è quella della solitudine della donna, frutto di un processo di privatizzazione contrario allo spirito della legge 194/78. Ho molto apprezzato a suo tempo l’impostazione di fondo data alla stesura della legge, in particolare i due principi interdipendenti su cui si regge: l’autodeterminazione della donna, la quale non può che godere del primato, e l’intervento della società con l’obiettivo di garantire alla donna la piena libertà di decisione. Ricordo che a questo si era giunti grazie all’intervento di alcuni indipendenti di sinistra di estrazione cattolica eletti nella file del Partito comunista, in particolare di Raniero La Valle e Mario Gozzini, che si sono battuti per dare spazio nella formulazione della legge alla mediazione tra il “personale” e il “sociale”; a questo era finalizzato l’intervento del consultorio. Il nuovo dispositivo circa l’aborto farmacologico ridimensiona questa prospettiva, incorrendo in una visione individualistica non esente da evidenti limiti.

Un’ultima domanda, infine. Osservando i dati del 2018 contenuti nella recente relazione del Ministero della salute sull’attuazione della legge 194/78 che valutazione si può dare del fenomeno? E soprattutto quale giudizio ritieni si debba dare sull’applicazione complessiva della legge?

I dati del 2018 confermano la diminuzione del numero degli aborti con una percentuale in consistente discesa rispetto agli inizi degli anni 80 del secolo scorso. Si è dunque verificata una graduale riduzione del fenomeno, al punto che il dato italiano è tra i valori più bassi a livello internazionale. Vanno pertanto respinte le critiche di chi addebita alla legge l’esplosione degli aborti. Il giudizio sulla sua applicazione è dunque sostanzialmente positivo.  Il valore di una legge non si misura dalla difesa astratta di un principio, ma dalla capacità che essa ha di intervenire efficacemente su un fenomeno negativo come l’aborto, sia evitandone le peggiori ricadute collaterali – si pensi soltanto alle condizioni igienico-sanitarie in cui avveniva l’aborto clandestino – sia contribuendo al suo ridimensionamento. Ambedue gli effetti sembrano essersi verificati, anche se si deve onestamente riconoscere che sulla sua riduzione quantitativa ha pesato (e pesa tuttora) la diminuzione (allarmante) del numero dei nati sul territorio nazionale. Molto rimane dunque ancora da fare sul terreno della prevenzione e dell’intervento positivo della società a sostegno della maternità.