di Giannino Piana

La presentazione in Parlamento della cosiddetta legge contro l’omotransfobia ha suscitato in alcuni settori del mondo cattolico (e non solo) vivaci reazioni. Quali le ragioni del dissenso? E come valutarle?

Per rimanere nell’ambito del mondo cattolico, immediata e assai rigida è stata la reazione della CEI

che è intervenuta affermando l’inutilità della legge, poiché esisterebbero già presidi adeguati al riguardo, e denunciando la sua dannosità, in quanto – sono le parole del documento dei vescovi italiani – “si finirebbe col colpire l’espressione di una legittima opinione più che sanzionare una discriminazione”. Ora ambedue le motivazioni addotte risultano fragili. La prima perché l’entità del fenomeno discriminatorio è tuttora consistente: rapporti anche recenti confermano che le situazioni di discriminazione a causa dell’orientamento sessuale o dell’identità di genere sono in aumento, e un intervento specifico rivestirebbe, anche di là dall’effetto penale, un importante significato simbolico. La seconda motivazione – quella del pericolo di limitare la libertà di opinione – perché in realtà, lo ha affermato con chiarezza il primo firmatario e relatore della proposta di legge senatore Zan, il reato di “propaganda di idee” (che è previsto nella legge Mancino a proposito dell’odio etnico e razziale) non verrà esteso all’orientamento sessuale, ma la libertà di manifestazione del pensiero risulterà limitata esclusivamente all’istigazione a delinquere e agli atti di violenza.


Le critiche alla legge non vengono tuttavia soltanto dal mondo cattolico, in particolare come si è visto dalla CEI, ma anche da alcuni settori del mondo laico, da una parte del mondo femminista e persino da qualche ristretto gruppo omosessuale. Quali sono le ragioni da cui muovono tali critiche? E che cosa ne pensi?

Le obiezioni che, in questo caso, vengono mosse al disegno di legge sono più radicali e più fondate. Il riferimento all’omotransfobia, che include il genere, il comportamento sessuale e l’identità di genere, introduce, infatti, il riferimento a un principio antropologico complesso e controverso, quello del gender, il quale contiene senza dubbio aspetti di verità, ma che assolutizzato e trasformato in ideologia, oltre a non essere scientificamente del tutto fondato, presenta lati decisamente problematici che non si possono ignorare. La tentazione è, infatti, di passare da un rigido determinismo biologico, in passato prevalente, alla totale rimozione del dato biologico per fare spazio nella definizione dell’identità di genere e nella valutazione del comportamento sessuale al solo fattore socioculturale. Di qui l’accentuata diversificazione degli orientamenti sessuali e la possibilità di un cambio (anche abbastanza frequente) di identità nel corso dell’esistenza, al punto che vi è chi afferma (e non senza ragione) che la teoria del gender altro non è che una delle conseguenze di quella liquidità che, secondo Bauman, caratterizza la società di oggi. Ora che gli orientamenti sessuali siano differenziati è un dato di fatto innegabile, e che l’identità di genere non sia riconducibile al solo dato biologico (si incorrerebbe in una forma di rozzo materialismo) ma implichi il coinvolgimento del dato socioculturale è fuori discussione. Questo tuttavia non può significare rinuncia a fare i conti con l’originaria differenza dei sessi – il rapporto uomo-donna ha in tutte le tradizioni culturali carattere di archetipo fondativo – e a considerare le altre forme di identità e di relazione, le quali vanno protette e garantite nella loro espressione, come figure che, al di là del riconoscimento della pari dignità di cui devono godere, non possono essere trattate sul piano legislativo in modo del tutto egualitario. Vale, infatti, la considerazione che come è ingiusto trattare in modo diverso situazioni uguali è altrettanto ingiusto trattare in modo uguale situazioni diverse. La giustizia esige un preciso discernimento delle situazioni per rispondere, di volta in volta, in maniera adeguata alle istanze da esse emergenti, le quali non sono mai del tutto assimilabili a un modello univoco. C’è senz’altro dell’esagerazione in chi vede nella legge contro l’omotransfobia un’alterazione dell’ordine sociale – l’effetto previsto dei provvedimenti connessi è molto più limitato – ma il presupposto su cui si fonda la condanna risulta discutibile e in ogni caso non assolutizzabile.

Le considerazioni antropologiche avanzate vanno senz’altro fatte oggetto di attenta riflessione. Ma che cosa hanno a che fare con le critiche di parti del movimento femminista e di qualche frangia di quello omosessuale? Come si giustifica la loro contrarietà?

È vero. A una prima impressione sembrerebbe doversi ritenere il contrario.  L’aperto riconoscimento della diversità degli orientamenti e dei comportamenti sessuali, più radicalmente dell’identità di genere, parrebbe corrispondere perfettamente alle istanze di tali movimenti. Ma a rivestire un ruolo negativo è, da un lato, l’eccessiva possibile moltiplicazione delle identità e, dall’altro, l’estrema fluidità cui si è accennato, con la possibilità di più cambiamenti da parte dello stesso soggetto nel corso dell’esistenza e con il conseguente pericolo (non ipotetico) che si giunga allo stemperamento dell’identità, fino alla sua vanificazione. Il che confligge con la valorizzazione della differenza femminile e dell’importanza del suo consolidamento, che ha rappresentato per molti gruppi femministi, dopo la fase dell’emancipazione e della rivendicazione della parità dei diritti, un elemento fondamentale del processo di liberazione. Questo poi vale, analogamente, anche sul versante omosessuale, dove – secondo alcuni – la possibilità del cambiamento (e la frequenza con cui può verificarsi) contraddice il riconoscimento dell’omosessualità come status esistenziale permanente, come un modo di essere-al-mondo, e finirebbe per ridurla, di fatto, a una variabile temporanea, potendo persino giustificare chi sostiene che potrebbe venir superata da una cura psicologica adeguata. Tuttavia l’obiezione più radicale – è questo il motivo più rilevante delle riserve avanzate da alcune femministe che hanno fin dall’inizio preso le distanze dalla teoria del gender – riguarda la totale equiparazione dei diritti assegnabili alle diverse identità, con riflessi immediati sulla genitorialità. L’ammissione della parità dei diritti comporterebbe il diritto delle coppie omosessuali di ricorrere alle tecniche di procreazione assistita per soddisfare il desiderio di avere un figlio, con l’inevitabile ricorso all’utero in affitto nel caso delle coppie gay. Torna qui la considerazione che non è giusto trattare in modo uguale situazioni diverse, ma si apre soprattutto la questione del conflitto dei diritti: in gioco vi è, infatti, nel caso dell’omogenitorialità in generale, il diritto del bambino il quale non può che avere la precedenza, e nel caso di quella delle coppie di uomini, il diritto della donna a non essere ridotta a semplice incubatrice. La legge non può non prestare un’attenzione privilegiata a tali conflitti e deve affrontarli con realismo soppesando concretamente gli effetti dei vari dispositivi che vengono messi in atto.