Siamo ormai a tre mesi dall’inizio della pandemia. Si sta andando fortunatamente, anche se a passi cauti e lenti, verso la normalità. È possibile fare un bilancio su quanto è avvenuto?
In realtà, per quanto ci viene detto e ne sappiamo, siamo ancora ben lontani dalla situazione di normalità.La ripresa della vita economica è avviata, ma non è certo totale e persistono difficoltà che a lungo si protrarranno come quella dei trasporti.
Il bilancio che oggi si può formulare è dunque un bilancio del tutto provvisorio. Il dato che emerge, a una prima valutazione di quanto è stato fatto, è che, pur con oscillazioni in parte inevitabili data la complessità dei problemi da affrontare e le scarse conoscenze in possesso, ce la siamo come Paese cavata. E questo anche perché il popolo italiano, forse soprattutto per la paura che si è immediatamente diffusa, ha risposto con grande (insperato) senso di responsabilità alle direttive, anche pesanti, che venivano emanate dal governo. C’è da augurarsi che questo senso di responsabilità si conservi, perché il cammino da compiere per uscire dal tunnel e dare pieno compimento alla ripresa è ancora lungo e tortuoso.
Vi è chi riferendosi alla politica di governo osserva come anche in questo caso (come nel caso dell’immigrazione) si sono affrontati problemi con la logica dell’emergenza, evitando di prendere seriamente in considerazione i problemi strutturali e di lungo periodo. Che ne pensi? Come valutare le responsabilità dei politici?
È vero quanto viene osservato. A discolpa (sia pure parziale) di chi ci governa occorre riconoscere che la gravità dell’emergenza sanitaria ha costretto a intervenire sui problemi di grande rilevanza, che andavano con urgenza affrontati. Ora è tuttavia venuto il momento di porsi i problemi strutturali e di lungo periodo, prendendo atto che la pandemia ha messo chiaramente in evidenza che la crisi che attraversiamo è una crisi di sistema e come tale esige interventi radicali sia sul terreno economico-sociale che politico. Se questo non avverrà il rischio è che si ripropongano in un futuro non lontano emergenze come l’attuale e, più in generale, che si assista all’accentuarsi della recessione economica, con pesanti ricadute negative sulla vita dei cittadini, in particolare dei poveri, e con l’impossibilità di arrestare fenomeni devastanti come quelli connessi con la crisi ambientale. Quanto alla valutazione delle responsabilità dei politici, degli uomini del governo nazionale, ma anche dei governatori delle diverse regioni, dei sindaci e in generale degli amministratori diverse sono le riserve che si possono avanzare. Al di là delle difficoltà oggettive già accennate, non si può negare che spesso non ha funzionato il rapporto centro-periferia – anche in questo caso la crisi è di sistema: la mancata definizione del rapporto governo centrale-regioni è emersa in modo eclatante –; come non si possono negare, nell’azione di governo, incertezze e confusioni, spesso anche assenza di informazione puntuale. Ma il dato più discutibile è forse l’aver dato l’impressione che il governo si sia messo totalmente nelle mani del comitato scientifico, divenendo una sorta di organo esecutivo delle sue direttive e abdicando pertanto all’esercizio delle proprie responsabilità. La sensazione è stata che ci si affidasse incondizionatamente a tale autorità in mancanza di una vera autorevolezza, denunciando pertanto la propria intrinseca debolezza. La stessa sequela di decreti presidenziali, che hanno finito per esautorare il Parlamento da ogni discussione e decisione e che costituiscono un vulnus nei confronti della democrazia, va forse addebitata, consciamente o inconsciamente, a una volontà di autoaffermazione dietro cui si celava la percezione di questa debolezza.
Molte sono state, e provenienti da più parti, le critiche mosse al presidente Conte a proposito della comunicazione. Ha già accennato al riguardo a incertezze e indecisioni. Che cosa si può dire degli operatori dell’informazione?
È difficile fare una valutazione complessiva di un sistema come quello dell’informazione, che è estremamente variegato e complesso. Si rischia di incorrere in forme di omologazione superficiali o devianti. Ci sono giornali e servizi radiotelevisivi, che hanno dato con onestà notizie il più possibile oggettive sulla situazione, altri che non hanno esitato a indulgere in forme di scandalismo, facendo spazio a interviste con esperti di diverse discipline, magari scelti apposta in quanto in controtendenza rispetto alle posizioni ufficiali; per non dire delle numerose fake news che hanno invaso i social. Mi ha poi particolarmente colpito la concentrazione di tutti i media attorno alla pandemia, una sorta di gestione monopolistica, che ha finito per trascurare molti altri importanti problemi della vita del Paese. Ma ancor più mi ha colpito il provincialismo (peraltro non nuovo) di gran parte dei media, sia nel fornire le informazioni sulla pandemia – tutto è ruotato attorno alla situazione italiana o al più di alcuni Paesi europei o occidentali, con l’esclusione in particolare dei Paesi africani e latinoamericani – sia nell’accentrare tutta l’attenzione sul coronavirus, trascurando la presenza nel mondo di eventi assai gravi come i focolai di guerra che mietono ogni giorno migliaia di morti.
A comparire con insistenza sulla scena sono stati in questo periodo gli esperti, virologi ed epidemiologi in particolare. Scienza e tecnologia sembrano aver ricuperato una posizione privilegiata con ampi riconoscimenti a livello di opinione pubblica. Ma è proprio così?
La mia impressione è che il rapporto della gente con il mondo della scienza e della tecnica sia stato caratterizzato dalla presenza di atteggiamenti contrastanti, persino contraddittori. Da un lato, la paura indotta dalla pandemia non poteva che spingere ad affidarsi alle conoscenze degli uomini di scienza, a chiedere loro certezze e soluzioni; dall’altro la considerazione che anch’essi navigavano nel buio, che sapevano cioè ben poco del virus e che avanzavano ipotesi spesso diverse anche sul terreno delle precauzioni da assumere creava (e non poteva che creare) disorientamento e sfiducia. In realtà, a ben vedere, l’esperienza della pandemia ha reso trasparente la strutturale ambivalenza della scienza e della tecnica: le enormi potenzialità da esse offerte all’uomo, sia sul terreno della conoscenza che della possibilità di modificazione della realtà, ma, nello stesso tempo, anche i pesanti limiti e le gravi controindicazioni. Non si deve, infatti, dimenticare che il coronavirus è la spia di una situazione di squilibrio tra uomo e natura provocata dall’uso che l’uomo ha fatto del progresso scientifico-tecnologico: la volontà di potenza ha trovato nella tecnica la più alta possibilità di espressione come esercizio di un dominio incondizionato sulla realtà.
Un’ultima considerazione. In tutto questo che spazio c’è per la responsabilità dei cittadini, per l’esercizio della cittadinanza attiva?
Credo che l’uscita dal tunnel esiga il coinvolgimento di tutti. Che il cambiamento di paradigma necessario per creare le basi di un sistema nuovo e alternativo implichi la collaborazione di ogni cittadino, tanto nel fare proprio un nuovo stile di vita quanto nella partecipazione diretta all’azione politica. È questo lo spazio della cittadinanza attiva, che ha bisogno per venire esercitata, di un supplemento di assunzione di responsabilità civile.