di Giannino Piana

Tanta è la voglia di tornare alla vita normale di prima: ma non sarà così, la situazione sarà diversa. Quale situazione sociale si presenterà? Non ci può forse essere il rischio di un ritorno al passato?

È fuori dubbio che la ripresa presenterà una situazione diversa da quella di prima della pandemia. All’emergenza sanitaria succederà (e potrà durare a lungo) una grave emergenza economico-sociale.

L’interruzione per mesi di una parte consistente dell’attività produttiva, la difficoltà della ripresa di alcuni settori – penso in particolare al turismo –, la consistente contrazione del Pil e l’aumento del debito pubblico, il forte incremento della disoccupazione e dell’inoccupazione giovanile – da noi con tassi assai elevati già prima della crisi – nonché l’aumento abnorme delle povertà rischiano di diventare fattori destabilizzanti. La tentazione che può avere il sopravvento per affrontare questa situazione di disagio che reclama risposte in tempi brevi, è quella di accelerare il processo di sviluppo da tempo in corso – quello che è all’origine dei mali sperimentati – puntando sulla massimizzazione della produttività e del profitto e accantonando del tutto l’attenzione all’ambiente e alla qualità dei beni prodotti. La necessità di tornare ai livelli del passato può spingere, in altri termini, a dare vita a una strategia di uscita dalla crisi che non si limiti a dare soltanto l’assenso al sistema vigente ma concorra persino al suo rafforzamento, assecondandone gli aspetti più deteriori. Che questo non sia del tutto inverosimile è confermato dal fatto che, dopo la crisi strutturale del 2008, che aveva segnalato con forza la debolezza del sistema e l’esigenza di muoversi in una direzione radicalmente alternativa, si è assistito a un ritorno al passato in forme, per alcuni aspetti, persino peggiori. Al di là di alcuni aggiustamenti, funzionali peraltro al mantenimento del sistema – i correttivi non tendevano certo a modificarne la logica, ma soltanto a rimuovere alcune gravi distorsioni, in realtà consolidandolo – sono venute affermandosi forme di protezionismo, guerre commerciali e imposizione di restrizione degli scambi, che si ritenevano del tutto accantonate. Non è detto che tale situazione non possa oggi ripetersi. E dunque necessario reagire con forza a questa tendenza con proposte alternative e praticabili.

 

Il rischio da te segnalato è quanto mai realistico. Come reagire a questa tendenza? Quali le vie da percorrere per dar vita a un progetto alternativo?

Va detto intanto che il coronavirus ha messo in evidenza, in modo incontrovertibile l’intrinseca debolezza del sistema economico-finanziario che l’Occidente (ma non solo) ha costruito. A emergere con chiarezza è stata la sua assoluta insostenibilità non solo sul terreno ecologico o su quello della giustizia sociale, ma, più radicalmente, su quello della salute e della vita delle persone. Sono emerse così le crepe di un modello, che sembrava aver acquisito il carattere di un pensiero assoluto – l’ideologia del mercato unico – e ci siamo trovati tutti più fragili e indifesi. La pandemia in corso ha reso, infatti, ancor più trasparenti, da un lato, gli effetti negativi di interventi sconsiderati nei confronti dell’ambiente e, dall’altro, la gravità delle diseguaglianze sociali. Il fallimento del modello neoliberista rende allora indispensabile l’impegno volto a far ripartire l’economia su un binario diverso, puntando su un sistema giusto e sostenibile. In gioco vi è anzitutto il modello di sviluppo che va ripensato, collegando strettamente – come ci ha insegnato la Laudato si di papa Francesco – rispetto dell’ambiente e giustizia sociale. Le condizioni perché questo possa verificarsi sono diverse: da un profondo cambiamento dei presupposti rigidamente individualisti, che sono alla base del sistema economico attuale per restituire centralità al bene comune, a una maggiore presenza dello Stato non solo per salvaguardare la salute e l’integrità fisica, ma anche per intervenire con regole precise a eliminare tutte le forme di monopolio e a favorire, con opportuni incentivi, lo sviluppo di settori deputati alla produzione di beni fondamentali. Dal coinvolgimento della società civile, in funzione non solo di controllo ma anche di partecipazione diretta alla gestione – è questo il contributo della cosiddetta “economia civile” – fino al potenziamento del terzo settore no profit e profit e allo sviluppo di strumenti che consentano di esercitare una seria attenzione alle ricadute sociali dell’attività di impresa – dal codice etico al bilancio sociale – nello sforzo di privilegiare il lavoro e il profitto sociale e di dare concretezza alla responsabilità sociale di impresa.

 

Un quadro dunque assai ampio, che comporta un vero ribaltamento del sistema esistente. Hai accennato alla crescita delle diseguaglianze sociali e più specificamente all’aumento delle povertà. Non è retorico dire che il coronavirus ha colpito tutti allo stesso modo?

Non vi è dubbio che la pandemia abbia non solo evidenziato le profonde diseguaglianze della nostra società; ma abbia anche concorso ad accentuarne, in misura consistente, la portata. Non è vero – come da qualche parte si è sostenuto – che il virus sia stato il “grande equalizzatore”; esso ha colpito soprattutto i poveri – anziani residenti nelle case di riposo in particolare – che hanno pagato un prezzo altissimo, rendendo drammaticamente attuale il detto afroamericano che recita: “Quando l’America bianca prende il raffreddore, l’America nera si ammala”.

 

La presenza dei poveri rende urgenti interventi immediati di sostegno. Le prospettive che hai avanzato esigono tempi lunghi. Non c’è il rischio che si sia tentati di procedere nella ripresa con quella politica dei due tempi, criticata da papa Francesco: prima la ripresa economica e poi l’equa distribuzione?

Penso che si debba senza dubbio evitare la politica dei due tempi criticata da papa Francesco, ma che occorra invece procedere insieme a mettere in atto il progetto di fondo delineato, che ha senza dubbio tempi lunghi ma che va fin d’ora avviato e portato avanti progressivamente, e a intervenire tempestivamente nei confronti della situazione di grave difficoltà odierna con provvedimenti, che offrano a tutti la garanzia di poter soddisfare bisogni fondamentali e di fruire di diritti inalienabili. In questo senso diventa essenziale l’aiuto dell’Europa, che deve ritrovare le ragioni di un’unità fondata sulla solidarietà. L’emergenza in corso, che coinvolge tutti i Paesi europei – si tratta, infatti, di un’emergenza comune in cui nessun Paese è più “colpevole” di altri (anche se diverso è il livello di compromissione a riguardo del virus) – esige la condivisione dei rischi e la costituzione di un fondo di solidarietà, che consenta a tutti di fruire di un salario minimo. Vorrei aggiungere, in conclusione, che accanto all’azione del governo e dell’Europa, perciò delle istituzioni pubbliche, non può mancare l’impegno del volontariato e, più in generale, di ogni cittadino, che deve riscoprire, accanto alla rivendicazione dei diritti – come l’altra faccia della medaglia – la presenza di precisi doveri e di un senso di maggiore responsabilità.