di Giannino Piana

Per descrivere l’attuale situazione viene usato il linguaggio bellico: siamo in guerra. Soprattutto da chi è al governo come Trump, Macron, Conte e i governatori delle regioni. Non ti sembra scorretto e finalizzato a suscitare forti emozioni di paura per coagulare il consenso?

Il ricorso frequente che si è fatto in questo periodo di pandemia alla metafora bellica è non solo scorretto ma del tutto fuorviante e poco rispettoso nei confronti di chi ha vissuto (e vive tuttora: nel mondo le guerre sono tutt’altro che finite!) quella tragica esperienza. Il coronavirus è un’emergenza sanitaria, un problema di salute pubblica, e come tale non ha nulla a che vedere con la guerra. Siccome credo nell’importanza del linguaggio, nel peso rilevante esercitato dalla parola, ho il sospetto che, dietro  all’adozione dell’armamentario linguistico bellico si nasconda la volontà, conscia o inconscia, di alimentare la paura – la guerra è foriera non solo di paura ma di panico e di terrore – per far accettare provvedimenti, come quelli emanati, che limitano fortemente le nostre libertà. Ma forse – come suggerisce la domanda – vi è qualcosa di più. Le oggettive difficoltà di governare una situazione del tutto imprevista, lottando contro un virus invisibile di cui poco si conosce, e la considerazione che gli interventi messi in atto da regimi decisamente autoritari o non proprio di democrazia liberale sono risultati efficaci potrebbero far nascere la nostalgia di un accentramento del potere e ipotizzare persino il ritorno all’uomo forte. Il momento è delicato e impone dunque particolare vigilanza.

 

Esistono, dunque, secondo te, seri pericoli per la democrazia e per il rispetto della privacy? C’è il rischio che si utilizzi l’emergenza per limitare i diritti civili e politici?

Tornerei per un momento sulle limitazioni che ci sono state imposte che considero pesanti. Siamo stati costretti al sacrificio quasi totale della socialità, alla rinuncia a molte delle procedure tradizionali, abbiamo assistito (e assistiamo) alla riduzione delle funzioni del Parlamento grazie al susseguirsi di decreti presidenziali e da ultimo, (ma non ultimo in ordine di importanza) alla ormai imminente entrata in vigore dell’utilizzo (sia pure su base volontaria) del contact tracing per acquisire informazioni utili ad affrontare con maggiore efficacia la pandemia con evidenti ricadute negative sulla privacy. Tutto questo può essere giustificato in una situazione eccezionale come l’attuale, caratterizzata da una grave emergenza. Ma tale stato di cose non può continuare a lungo e tanto meno diventare una condizione permanente. Il rischio per la democrazia diventerebbe inevitabile, e il pericolo che questo possa avverarsi non è del tutto remoto. Basti pensare a quanto si è verificato altrove in circostanze analoghe. Emblematico è il caso degli Stati Uniti dopo la caduta delle Torri Gemelle, dove con il pretesto della sicurezza sono state assunte misure che hanno di fatto istituito, grazie alla tecnologia a disposizione, una forma di controllo poliziesco permanente sulla vita delle persone. E dove sono stati assunti drastici provvedimenti nei confronti dell’ingresso degli stranieri, in particolare di quelli provenienti dai Paesi di religione islamica; provvedimenti che, oltre a contraddire gli indirizzi della Costituzione americana, rappresentano un fatto del tutto anacronistico dinanzi all’avanzare galoppante della globalizzazione.

 

Quello che si è verificato in America a partire da quell’11 settembre è davvero grave, ancor più poi se si pensa a chi oggi governa il Paese. Ma ritieni possano verificarsi anche nel nostro Paese condizioni simili? E quali sono eventualmente le cause che possono condurci a tale esito?

Spero senz’altro di no. Ma sono seriamente preoccupato di quanto potrebbe avvenire in Italia nei prossimi mesi. Temo un autunno caldo (o forse prima ancora un’estate calda) contrassegnato dall’emergere di forti conflittualità sociali. L’inevitabile accentuarsi della disoccupazione e il dilatarsi del fenomeno delle povertà vecchie e nuove – le previsioni degli esperti sono in ambedue i casi allarmanti – non potranno che alimentare tensioni difficilmente controllabili. Il crescente disagio sociale esigerebbe, infatti, la presenza di una classe politica autorevole e responsabile. Ma non ho la sensazione che questa sia la nostra situazione attuale, e il pericolo è allora che si vada verso forme di cedimento strutturale, con la possibilità, già ventilata, dell’avanzare di tentazioni autoritarie, che mettano in discussione i principi fondamentali dell’ordine liberale e costituiscano un attentato ai diritti e alle libertà fondamentali dei cittadini creando un vero vulnus per la democrazia. Se si getta uno sguardo sugli scenari dell’odierna geopolitica mondiale si ha la conferma che questa evenienza non è del tutto peregrina. Le democrazie liberali in senso pieno sono oggi nel mondo una minoranza: si va, infatti, da Paesi a regimi decisamente dittatoriali come la Cina, a Paesi a democrazia ridotta, come la Russia di Putin, l’America di Trump, il Brasile di Bolsonaro e la Turchia di Erdogan, fino a Paesi come l’Ungheria di Orban che teorizzano una “democrazia illiberale”. Un panorama variegato, ma poco rassicurante, al quale si possono aggiungere numerosi Paesi asiatici, africani e latinoamericani. L’Europa, nel suo insieme, costituisce per ora un importante baluardo nei confronti di questa minaccia. Ma, oltre a esperienze autoritarie come quelle dell’Ungheria e di alcuni altri Paesi dell’Est europeo, non si può trascurare la presenza un po’ ovunque (sia pure con diversa intensità) di movimenti e di partiti nazionalisti e sovranisti che rivendicano forme di forte accentramento del potere. Il nostro Paese, con il blocco costituito dalla Lega e da Fratelli d’Italia, rientra a pieno titolo in quest’area, e non si deve perciò abbassare la guardia.

 

La situazione che hai descritto è particolarmente allarmante. Che cosa si deve fare per esorcizzare questo pericolo?

Ho già messo l’accento sulla necessità della vigilanza. Ma questo non basta. La tutela delle libertà civili e della democrazia esige anzitutto una partecipazione dal basso, l’attivazione cioè di un impegno da parte dell’intera cittadinanza a non accettare alcun allentamento delle regole e delle procedure democratiche. Il ritorno alla normalità, dopo questa drammatica vicenda, deve avvenire nel segno del pieno ripristino di tutti i presidi sui quali si regge la democrazia. Il che comporta anche lo sforzo, che non può esaurirsi nel momento elettorale ma implica un’azione a vasto raggio – a cominciare dal piano formativo –, a dare vita a una classe politica competente e responsabile in grado di guidare il Paese fuori dalla congiuntura attuale con una seria progettualità rivolta al futuro. A questo si deve aggiungere un particolare impegno a dare il proprio contributo alla creazione di un nuovo ordine mondiale – la pandemia ci ha insegnato una volta di più quanto sia impossibile prescindere dall’interdipendenza che lega a tutti i livelli l’intera famiglia umana – e a lavorare concretamente perché si promuova un’integrazione sempre più stretta tra i Paesi europei – abbiamo bisogno di più Europa – perché l’Unione diventi un paradigma di democrazia, fondata sui valori di libertà e di giustizia, di solidarietà e di pace.  L’attuazione di queste buone pratiche non è soltanto condizione della preservazione delle libertà e dei diritti civili, ma è anche garanzia di una loro ulteriore promozione nei vari ambiti della convivenza.