La pandemia da coronavirus ha dato luogo a una serie di espressioni religiose legate alla pietà popolare: rosario, indulgenza plenaria, benedizioni con ostensorio in piazze delle città, invocazioni di santi e di madonne venerate per particolari episodi miracolosi del passato, e così via.
Cosa pensa di tutto questo? Che significato hanno queste manifestazioni? Non si tratta di un ritorno al passato?
Credo sia importante distinguere le diverse espressioni religiose: non tutte hanno lo stesso significato: diversa è, infatti, la recita del rosario dal ricorso a santi e madonne portati sulle piazze delle città. La pietà popolare non può (e non deve) di per sé essere demonizzata: esprime un bisogno della gente che va assecondato, ma che esige di essere tenuto sotto controllo con una forma di costante discernimento, se si intendono evitare manifestazioni devianti di carattere magico-superstizioso. Ora, al di là dei singoli episodi, il clima che nell’insieme si respira è senz’altro a rischio: i segnali involutivi sono indubbi. Il ricorso indiscriminato al sacro è in questo momento frutto di una situazione di grande emergenza, nella quale affiorano paura e angoscia, che suscitano sentimenti e comportamenti irrazionali. Non si può tuttavia negare che, dietro a tutto questo, affiori la debolezza di una fede immatura, con deboli radici, più legata a stereotipi tradizionali che a una vera assimilazione della radicalità del messaggio evangelico.
La debolezza della fede, resa trasparente in un momento particolare in cui affiorano paura e angoscia, è senz’altro un fattore fondamentale per capire quanto sta avvenendo. Ma esistono, secondo lei, altre ragioni del ricorso diffuso alle pratiche devozionali ricordate?
Sono personalmente convinto che, il ritorno alle pratiche devozionali sia anche motivato oggi da altre ragioni. Una delle quali – forse la principale – è rappresentata dai limiti della riforma liturgica del Concilio, almeno per le modalità con cui è stata in linea generale attuata nelle comunità parrocchiali. Per molti fedeli si tratta di una sorta di disagio, il più spesso inconscio (perciò non riflesso ma reale), di fronte a una ritualità che risulta essere troppo ingessata e poco coinvolgente. Non si possono certo negare i meriti della riforma – dall’adozione della lingua italiana all’introduzione di forme di partecipazione dei laici (letture bibliche e preghiera dei fedeli) –, ma il clima che normalmente si respira non appare in sintonia con un’autentica tonalità religiosa. Diversi sono i motivi di questa assenza: da un eccessivo razionalismo nello strutturarsi del rito, con il mancato coinvolgimento della dimensione corporea e affettiva all’esorbitante didascalismo dovuto al mancato aggiornamento dei simboli che, non essendo per se stessi trasparenti e leggibili come dovrebbe essere, esigono di essere spiegati; fino all’uniformità delle formule usate – le stesse per tutte le comunità cristiane – senza attenzione alla diversità dei contesti in cui la celebrazione avviene e con pochi margini di adattamento. E si potrebbe continuare, richiamando la carenza di spazi di silenzio e di raccoglimento, la banalità di alcuni canti e le omelie, nelle quali spesso anziché far parlare la Parola perché sia essa a diventare metro di valutazione degli avvenimenti e stimolo all’impegno, si sovrappongono a essa le considerazioni del sacerdote che oscillano tra vecchio moralismo e facile sociologismo.
Stante l’attuale situazione critica, la pandemia poteva forse diventare un’occasione, un “momento favorevole” per avviare, attraverso una serie di proposte di liturgia familiare, un cammino alternativo verso una fede “adulta”. Perché è mancato questo sforzo?
Devo dire anzitutto che vi sono state e vi sono realtà parrocchiali – di alcune sono direttamente a conoscenza – nelle quali questo è avvenuto; che hanno cioè predisposto sussidi per i singoli e per le famiglie che si muovono nella direzione alternativa indicata. Si tratta tuttavia di eccezioni: la maggior parte di vescovi e di sacerdoti ha preferito fare la scelta delle pratiche devozionali cui si è accennato, forse per compiacere una domanda diffusa in una consistente maggioranza di praticanti. E’ senza dubbio un’occasione perduta! Le difficoltà di una fede “adulta” sono, d’altra parte, evidenti nel nostro Paese, e risalgono molto indietro nel tempo. Basti pensare all’assenza di una cultura religiosa, dovuta anche a scelte fatte dall’alto: dall’esclusione della teologia e delle scienze religiose dalle università statali alla scarsa lungimiranza dimostrata, in tempi più recenti, a proposito dell’insegnamento religioso nella scuola, dove la volontà di esercizio del controllo da parte dell’autorità ecclesiastica, ha impedito che si conferisse piena dignità culturale a un insegnamento pubblico sul fenomeno religioso, e sulla religione ebraico-cristiana in particolare. Sono soltanto alcuni indicatori di una condizione di minorità culturale (e spirituale) che spiega il perché della facile indulgenza di molti fedeli verso le pratiche devozionali.
Un’ultima questione. Rimanendo in tema si sacerdoti, fa una certa impressione vedere che, nonostante la chiusura delle chiese, moltissimi sono i sacerdoti che celebrano tutti i giorni in assenza dei fedeli, e che hanno deciso di celebrare in solitudine anche il Triduo pasquale. Che ne pensa? Non si tratta di un rigurgito di clericalismo?
Che di clericalismo si tratti non vi è dubbio. Trovo questa scelta, peraltro diffusa e sostenuta anche dal consenso di molti fedeli, l’espressione più grave dell’assenza di pudore religioso. Quella mancanza di pudore presente in alcune manifestazioni devozionali ricordate – l’esperienza religiosa si presenta, da questo punto di vista, estremamente delicata – trova qui il suo culmine. Dopo tutti gli sforzi messi in atto nel postconcilio per presentare la celebrazione eucaristica come un atto comunitario, queste celebrazioni, che avvengono in solitudine nei giorni feriali e nel Triduo pasquale, risultano del tutto incongruenti e regressive. E’ inutile fare appello al fatto che la gente può collegarsi attraverso i media; perché allora non suggerire di seguire, soprattutto per il Triduo, le trasmissioni televisive delle celebrazioni papali? Non servirebbe anche questo, in un momento di pandemia universale a farci sentire tutti, attraverso la chiesa universale, partecipi e solidali con la comunità dei fedeli sparsa nelle diverse regioni del mondo e, più radicalmente, con l’intera famiglia umana? E, inoltre, non era l’occasione, in una situazione di forzato digiuno eucaristico dei fedeli, di unirsi a loro, condividendo la loro condizione, e non sottolineando la propria differenza e vantando il proprio privilegio?
Per approfondire e seguire il dibattito sul tema si rimanda al sito Viandanti