di Giannino Piana

Il coronavirus ha reso manifesta una situazione di gravi carenze del sistema sanitario nazional/regionale: mancanza di reparti di terapia intensiva e di strumentazione tecnica per la cura, scarsità di personale specializzato, ecc. Fortunatamente a sopperire in parte a tali deficienze sono intervenute risorse personali/professionali, economiche, ecc. Come valutare questa situazione? E come ripensare oggi la solidarietà sociale?

Va detto intanto che l’epidemia del coronavirus ci ha messi di fronte a una situazione di emergenza straordinaria che ha visto tutti i Paesi coinvolti sprovvisti di strumenti adeguati. E’ vero tuttavia che nel nostro Paese tale inadeguatezza si è rivelata avere proporzioni maggiori che altrove, per le mancanze ricordate. Basti richiamare qui l’attenzione sui posti letto ospedalieri, e in particolare su quelli di terapia intensiva, che erano in Italia, al momento dello scoppio dell’epidemia, rispettivamente una metà e un quinto di quelli della Germania. Le ragioni di queste carenze sono molte, ma la ragione principale va senz’altro ascritta alla miopia della politica (e non solo dei governi di centro-destra). La progressiva riduzione della spesa pubblica per il welfare in generale, e per la sanità in particolare, e la riduzione, soprattutto in alcune regioni, degli spazi del pubblico a favore del privato – si pensi al sistema Lombardia – hanno progressivamente eroso le basi strutturali per una adeguata risposta ai bisogni. E’ evidente, se si vuole uscire da questa situazione, la necessità di ricostruire il senso della solidarietà sociale, che deve partire dallo sviluppo di una nuova coscienza civile dell’intera cittadinanza – è questa una premessa essenziale – e deve trovare sbocco in precisi interventi di carattere istituzionale. Il coronavirus può diventare, da questo punto di vista, un occasione importante per la crescita di una nuova sensibilità sociale e  per l’assunzione di un nuovo impegno civile da parte di tutti.

 

Pur tenendo in considerazione – come lei stesso ci ha ricordato – l’eccezionalità di quanto è accaduto, lo scenario che comunque si prospetta, con l’aumento della popolazione anziana con problemi di salute e l’incremento delle disabilità e delle fragilità fisiche e psichiche, nonché la scarsità delle risorse economiche e professionali a disposizione delle autorità pubbliche, risulta fortemente problematica. Quale riforma del welfare ipotizzare? Vi è in ogni caso un limite alle prestazioni delle politiche sociali? E come fissare tale limite?

Da molte parti si invoca, e non senza ragione, la riforma del nostro welfare. Tale riforma, necessaria se la si concepisce come un processo di sburocratizzazione, che si proponga di eliminare gli sprechi e gli squilibri tra i vari settori, nonché le lentezze nella fornitura delle prestazioni, non deve comportare un ridimensionamento dell’offerta dei servizi, ma una ulteriore loro estensione grazie anche a una razionalizzazione del sistema che determini il suo rafforzamento. La possibilità di ricuperare risorse economiche, assolutamente necessarie per venire incontro ai bisogni soddisfacendo diritti fondamentali garantiti dalla nostra Costituzione (art. 3) – quello della salute in primis – è soprattutto legata nel nostro Paese alla lotta nei confronti dell’evasione e dell’elusione – si calcola che essa coinvolga 11 milioni di cittadini con un totale di circa 100 miliardi annui – e a una riforma del sistema fiscale, con aliquote fissate mediante parametri progressivi in rapporto al reddito da lavoro e un aumento della tassazione nei confronti delle rendite finanziarie. Ma la riforma non può essere soltanto tecnica. Deve comportare la creazione di condizioni per l’attivazione di una nuova forma di solidarietà: si tratta di ripensare il rapporto tra istituzioni pubbliche e soggettività sociali, favorendo un coinvolgimento delle diverse forze sociali e più in generale dell’intera cittadinanza, sia nella definizione degli indirizzi di gestione dei servizi che del controllo dei risultati. Il che implica la nascita dal basso di una nuova consapevolezza, quella per cui non è sufficiente ricorrere allo Stato sociale per rivendicare diritti, ma è indispensabile assumere nei suoi confronti doveri e responsabilità. Quanto, infine  alla domanda sui limiti delle prestazioni delle politiche sociali, credo sia impossibile fissare un indice preciso a priori, ma penso sia importante non dimenticare il contributo integrativo del terzo settore e del privato sociale.

 

Un problema sollevato dalla situazione del coronavirus, e più in generale dalla situazione del limite delle risorse disponibili, è quello dei criteri delle persone alle quali dare la precedenza in casi estremi, quando non si possono soccorrere tutti allo stesso modo. Significativo è quanto scritto dal quotidiano “Avvenire” dello scorso 25 marzo (p. 15) in un articolo dal titolo Niente respiratori per i disabili, Più di 10 Stati scelgono chi salvare, in cui si precisa chi meriti di essere salvato con cure adeguate sulla base delle “abilità fisiche e psichiche” tra coloro che hanno contratto il virus. Non le sembra un quadro inquietante? Si possono individuare criteri etici per l’emergenza che rispettino i valori umani e i limiti della situazione? Quali?

La decisione denunciata da “Avvenire” è senz’altro inquietante. La situazione provocata dallo scoppio del coronavirus ha sollevato ovunque interrogativi, a tale proposito, drammatici, soprattutto per la carenza ricordata di posti di terapia intensiva. Da noi è intervenuta con un apposito documento la Società italiana degli anestesisti e rianimatori (SIIARTI), la quale precisa che, in casi estremi, il criterio etico da seguire, nel rispetto del principio della giustizia distributiva (un principio fondamentale della bioetica), è quello di dare la precedenza ai pazienti con maggiore possibilità di successo terapeutico, privilegiando dunque la maggiore speranza di vita. E’ ovvio che questo comporta attenzione più che all’età (che pure è un dato non trascurabile) alla condizione clinica complessiva, con una valutazione di insieme che considera prioritario intervenire su chi può avere più anni di vita salvata. I medici e gli operatori sanitari ci assicurano fortunatamente di non essersi finora trovati, pur in presenza di una maxiemergenza straordinaria, di fronte a questi tragici dilemmi.