di Severino Dianich

Se obiettivo del Sinodo è sviluppare le forme di sinodalità a tutti i livelli, il nodo è la struttura gerarchica e clericale. Quali soluzioni si prospettano?

Sì, il nodo da sciogliere per uno sviluppo della sinodalità è questo: comporre la corresponsabilità dei fedeli con l’autorità del pastore. La questione non è superficiale, perché è in gioco il sacramento dell’Ordine, dal quale il vescovo e il parroco ricevono i carismi del loro ministero, fra i quali anche quello della guida della comunità, dotata in alcuni ambiti di una responsabilità esclusiva e quindi di autorità.

È un sacramento, non una designazione burocratica, a fare di un cristiano un diacono o un prete o un vescovo ed è dal sacramento dell’Ordine che egli deriva il carisma di un annunciatore del Vangelo non come ogni altro fedele, ma come garante dell'autenticità della fede, col ruolo di una guida della comunità dotata di autorità e col compito di presiedere la celebrazione dell’Eucarestia. È per fede e con fede che la comunità riconosce il ruolo del suo pastore. L’Ordine ha come sua radice biblica la figura dei dodici apostoli, a cui Gesù ha affidato la testimonianza su di lui e il suo messaggio e, quindi di guida della Chiesa. Dai Vangeli viene l’immagine delle chiavi del Regno, della capacità di legare e sciogliere, cioè di prendere decisioni, quindi una vera e propria autorità nel guidare la comunità: “Chi ascolta voi - diceva Gesù agli Apostoli - ascolta a me”. Ciò non toglie che ci siano materie su cui si devono prendere delle decisioni per la vita della comunità, per le quali non è necessario l’esercizio dell’autorità derivata dal sacramento.
Il Sinodo dei vescovi attualmente in corso, che si concluderà nell’ottobre prossimo, per fare le sue proposte di riforma al Papa, dovrebbe pervenire a conferire ai vari Consigli oggi esistenti nelle diocesi e nelle parrocchie un potere deliberativo nei campi in cui non è necessario l’esercizio dell’autorità. Quest’ultimo dovrebbe esplicarsi nelle materie che riguardano la fede e la pratica dei sacramenti e là, dove, eventualmente, una crisi mettesse a repentaglio l’unità della Chiesa. Nelle altre questioni dovrebbero essere i Consigli rappresentativi delle comunità a dover pervenire a una decisione. Pensiamo solo alle questioni dell’amministrazioni dei beni della comunità o alle opportunità, quando non al dovere, di prendere una posizione pubblica intorno a problemi sociali importanti che sorgono nel contesto civile. Allo stesso modo si pensi ai carismi che i fedeli coniugati e genitori hanno ricevuto dal loro sacramento, che li rende ben più competenti ed esperti dei vescovi e dei preti, celibi, nel valutare le politiche famigliari che si sviluppano nella società e operare in nome della Chiesa per affermarne i valori. Se il Consiglio comprende persone che hanno competenza ed esperienza e, quindi, carismi, che non fanno parte del patrimonio carismatico proprio del ministro ordinato, deve avere la possibilità di una decisione collegiale, sia pure sempre in comunione con il pastore, Là dove il divario di giudizio sulla decisione da prendere fosse grave e apparisse insuperabile la decisione dovrebbe essere rimandata in modo da maturare insieme una presa di posizione comune.


La dottrina dei Ministeri ha attraversato molte variazioni nel tempo. Da una concezione che sembrava conoscere solo il ministero sacerdotale del vescovo e del prete, cosa vuol dire tendere ad una ministerialità diffusa?

La parola Ministero ha assunto col tempo, sia nella Chiesa che nella società civile, un carattere di nobiltà e di superiorità, mentre il suo significato è semplicemente quello del servizio: nessuno ha mai decorato del termine “ministro” il sacrestano, eppure che di un ministero si tratti è evidente. Il problema è quello del riconoscimento formale di alcuni ministeri nella Chiesa. Primo fra tutti a essere riconosciuto è il ministero fondato sull’Ordine sacro, che il popolo di Dio riconosce per fede, visto che sorge e si fonda in un sacramento. Problema non affrontato in maniera adeguata e che pure si pone è quella di un parallelo riconoscimento per fede del ministero degli sposi, pur questo sorgente e fondato in un sacramento. Se ne potrebbero trarre deduzioni molto innovative e importanti.
Su un altro piano stanno i ministeri cosiddetti istituiti. Attualmente sono il lettorato, l’accolitato e il ministero del catechista. Questi, ovviamente possono essere ulteriormente moltiplicati. Personalmente ritengo che un passo da fare, prima che la loro moltiplicazione, sia quello di determinarne la posizione pastorale e canonica nella Chiesa. Come il ministro ordinato è in ogni modo un punto di riferimento essenziale per la comunità, in che senso lo sono, lo possono essere, lo saranno, gli altri ministeri?
Non credo, però, che la via per favorire la corresponsabilità dei fedeli nella Chiesa sia quella dei ministeri istituiti. Si riuniscano e si istituiscano solo tanto quanto nelle comunità si manifesti il bisogno, non solo che il servizio sia fatto ma che i soggetti ne siano formalmente resi responsabili. Nonostante la fortuna che ha nel linguaggio cattolico, la formula di una “Chiesa tutta ministeriale”, a mio giudizio, non solo non apre una prospettiva veramente nuova, ma rischia di allargare gli spazi dei cristiani che contano rispetto al grande corpo dei cristiani comuni. Come se i fedeli non potessero essere responsabili della missione, che in forza di un formale riconoscimento del servizio che compiono, mentre lo sono per la loro fede e il loro battesimo che li rende parte viva di un sacerdozio comune. Fra l’altro, non avrebbe senso inquadrare in un ministro specifico il servizio all’evangelizzazione, il più necessario e prezioso, che i fedeli attuano quotidianamente nella loro vita sociale con la testimonianza che sono chiamati a rendere, nei fatti e nelle parole, alla fede in Cristo. I ministeri sono utili in realtà per la vita interna della comunità, più che per la missione.
Una sinodalità vera non si attuerà moltiplicando i ministeri, bensì prendendo sul serio il valore determinante per la missione della Chiesa dei carismi, dei diversi carismi di tutti i fedeli, perché non c’è cristiano che non sia dotato dallo Spirito di suoi particolari carismi. L’assemblea sinodale, come risulta dalla Relazione di Sintesi, si è manifestata avvertita del pericolo, nascosto nell’affidare lo sviluppo della sinodalità alla moltiplicazione dei ministeri, «di “clericalizzare” i laici, creando una sorta di élite laicale che perpetua le disuguaglianze e le divisioni nel Popolo di Dio». O la sinodalità punterà a valorizzare i “fedeli comuni” o altrimenti non sarà un vero passo in avanti nella maturazione della corresponsabilità di tutti i fedeli nella vita della Chiesa. Questo si potrà compiere solo attribuendo ai carismi dei fedeli comuni, manifesti nelle esperienze specifiche e nelle diverse competenze con cui i fedeli operano, rendendo testimonianza della loro fede, all’interno della società civile, la capacità di determinare a fondo le scelte e la vita della Chiesa. Questa, infatti, è la prima e fondamentale componente della missione della Chiesa, perché è il terreno proprio della comunicazione della fede da parte del credente ai non credenti, sia perché la fede professata vi è vissuta e confermata nei fatti. Questa è la base sulla quale fondare la corresponsabilità dei fedeli nelle decisioni riguardanti la vita della Chiesa e, quindi, lo sviluppo della sinodalità.


Quali prospettive si dovrebbero aprire dal Sinodo per un superamento delle esclusioni che ancora compromettono la partecipazione piena alla vita della Chiesa da parte di alcune persone, come di coloro che vivono situazioni coniugali particolari, delle persone LGBT, delle donne in generale?

Il problema della posizione della donna nella Chiesa non ha nulla a che fare con le altre due situazioni che sono state citate. Sul piano del costume il problema della donna si pone sul piano della formazione al superamento del maschilismo ancora molto diffuso. E questo comporta anche, per quel che riguarda il clero, la necessità di superare il clericalismo. Per quel che riguarda invece le istituzioni, il problema è quello dell’esclusione della donna dal sacramento dell’Ordine. In quanto all’accesso della donna al sacramento nel grado del presbiterato (più diffusamente si usa dire del sacerdozio), esiste un documento di Papa Giovanni Paolo II, molto imperativo, che basandosi su una tradizione cristiana che non ha mai visto la donna sacerdote, ne conferma con forza l’esclusione. Il rispetto dovuto a questo atto di magistero ha impedito che nel Sinodo se ne riaprisse il problema, anche se non sono mancate alcune voci in questa direzione. È stato discusso invece abbastanza ampiamente il problema dell’acceso delle donne al sacramento dell’Ordine nel grado del diaconato. Al Sinodo alcuni hanno espresso un giudizio negativo esibendo, anche per questo caso una tradizione che non conoscerebbe donne diacone. A dire il vero, alcuni hanno replicato, che, se pure, in forme diversamente interpretabili, non mancano testimonianze in positivo. Altri però, hanno insistito sul fatto che oggi si tratterebbe di dare un segnale importante nei confronti della diffusa attesa di un superamento nella Chiesa di questa disuguaglianza fra uomini e donne. Aggiungendo, fra l’altro, che il servizio diaconale della donna, ricco della grazia del sacramento, sarebbe oggi un dono prezioso per una maggiore fecondità del ministero pastorale.
In quanto al rapporto ecclesiale dei conviventi e dei divorziati che si sono formati una nuova famiglia l’orientamento dei sinodali è stato molto positivo, chiedendo la rimozione, salvo casi particolari che si possono presentare, di ogni forma di esclusione. Se l’esclusione, poi, delle persone LGBT dovesse significare mancanza di rispetto, distacco, allontanamento, la deplorazione di simili atteggiamenti è stata condivisa con passione da tutti.  Non solo, ma di fronte ad alcuni rigorismi che rivelano incomprensione delle persone, sono state promosse in congregazione generale alcune testimonianze che ne favorissero il superamento. Il problema globale però, dell’omofilia, è di grande complessità in riferimento al progetto cristiano di vita e implica in qualche modo tutta la tradizione morale sessuale nel cristianesimo. Il Sinodo non poteva essere in grado di affrontarlo si è, quindi, limitato, onestamente e umilmente, ad auspicare che si studi il problema in tutta la sua ampiezza, sul piano interdisciplinare, con il contributo di competenti delle diverse discipline interessate al tema e coinvolgendo anche uomini e donne che ne vivono personalmente i problemi.