di Angelo Reginato
Come ha sognato Gesù la comunità delle sue discepole e dei suoi discepoli? E come possiamo noi tenere vivo quel sogno? Solo rifacendosi al racconto evangelico è possibile trovare una risposta a questi interrogativi. E dunque il compito da affrontare domanda di riaprire le Scritture e dare forma ad una comunità che torni a mostrare un volto evangelico. Si tratterebbe di evidenziare i tratti fondamentali di questa figura di chiesa, mettendo in discussione gli allontanamenti e i tradimenti che ne hanno sfigurato il volto. Ma siamo proprio sicuri che sia questa l’operazione da svolgere? Che l’enunciazione del “tornare all’evangelo”, come programma di riforma ecclesiale, sia risolutivo dell’attuale crisi?
La fede cristiana è costitutivamente evangelica: sta o cade a secondo della fedeltà o meno all’evangelo di Gesù. Che poi sotto il nome di cristianesimo ci sia qualcosa che prescinde dall’evangelo – una religione civile, una memoria culturale, un’identità nazionale – questo non dovrebbe stupire più di tanto lettrici e lettori delle Scritture, abituati a vedere sulla medesima scena, accanto al Dio liberatore, l’idolo; e poi Satana che cita le Scritture, le tira per la giacchetta, per tentare Gesù ad abbracciare un messianismo potente. Lo snaturamento del cristianesimo non è un fenomeno recente, frutto delle società secolarizzate: è connaturato all’esperienza credente stessa. Lungo i secoli, più volte si è tentato di fuoriuscire da queste derive proponendo di “tornare all’evangelo”. Pensiamo a Francesco d’Assisi e al suo desiderio di tornare ad un evangelo “sine glossa” – progetto di per sé irrealizzabile, poiché il testo, affidato alla lettura, è per forza di cose soggetto a glosse. Pensiamo a Lutero e al suo grido di battaglia: “sola Scriptura” – impossibile da intendersi in termini di esclusività di ogni altra parola ma come indicazione della sola cosa necessaria per una chiesa (cfr. Luca 10,41). Lungo questi venti secoli di storia del cristianesimo, più volte è risuonato l’imperativo del ritorno all’evangelo, per conservare il vino buono, sempre a rischio di venire annacquato. Ed anche in questo nostro tempo incerto, la bussola perché le chiese ritrovino la strada maestra è data da quel medesimo imperativo. Ma cosa vuol dire “tornare all’evangelo”? Significa, più prosaicamente, aprire la Bibbia e leggerla? In un certo senso sì. In questo si può scorgere una certa analogia con la mossa operata dagli umanisti, il ritorno alle fonti, alla lettura di quegli antichi che facevano da liquido di contrasto rispetto ad un panorama culturale troppo ristretto, accendendo altri sguardi sul reale. Anche i riformatori cristiani propongono di tornare a leggere quelle Scritture ebraico-cristiane che attestano il sogno divino sul mondo, denunciando l’ingiusta situazione di fatto e aprendo ulteriori orizzonti. Eppure, non bisognerebbe accontentarsi di questa indicazione, pensando che sia sufficiente tornare a leggere le Scritture per ritrovare l’immagine di chiesa pensata da Gesù. Di fatto, sia l’esperienza delle chiese della Riforma sia il cattolicesimo post-conciliare mettono in discussione questo assunto. Anche laddove si moltiplicano i gruppi biblici, le esperienze di studio delle Scritture, fatica a prendere forma la riforma sperata. Non sembra bastare la pur necessaria e lodevole familiarità col testo biblico. Cos’è che non funziona? Innanzitutto, pensare che questa operazione vada da sé, che l’immissione di massicce dosi di Scrittura sortisca per forze di cose il cambiamento sperato. Anche perché lo stesso “ritorno all’evangelo” si presta a più interpretazioni. Si può tornare a quella Parola per rivendicare la nostra fedeltà di chiese, insieme all’ortodossia di cui ci riteniamo i difensori autorizzati contro quanti sono identificati come traditori di quella Parola. Si può cioè riferirsi all’evangelo anche senza “tornare all’evangelo”! Le Scritture conoscono la costitutiva ambiguità di ogni realtà e non strizzano l’occhio ad un’improbabile zona franca, al riparo da possibili deformazioni. Neppure l’evangelo lo è!
E dunque? Possiamo, forse, cercare di capire come disambiguare, almeno in parte, questo imperativo vitale per le chiese, mettendo in evidenza alcuni aspetti decisivi. Innanzitutto, cos’è “evangelo”? Sicuramente non è riducibile ad un’offerta di contenuti, ai quali una chiesa deve aderire. Perché l’evangelo intende plasmare l’esistenza di una chiesa, dando forma ad uno stile evangelico, che è condizione di possibilità per il non travisamento dello stesso. Non vi è evangelo senza evangelicità. E l’elemento decisivo dell’evangelicità possiamo individuarlo nell’autoironia con cui la chiesa neotestamentaria parla di sé. Fin dal primo racconto evangelico, quello di Marco, la cui narrazione prende forma attorno allo scarto insormontabile tra il Maestro di Nazaret e i suoi discepoli, dipinti dall’inizio alla fine come incapaci di comprendere. Uno scarto drammatico che risuona persino nell’ultima pagina, nei confronti di quelle donne che pure sono rimaste, a differenza dei discepoli maschi: anche loro, alla fine, fuggono, piene di paura! Qualche anno dopo, quando Luca, nel libro degli Atti, racconta le vicende delle prime comunità cristiane, ritroviamo la medesima sferzante presentazione autoironica nell’episodio di Anania e Saffira. Quella scena (Atti 5) viene configurata come calco del racconto veterotestamentario del peccato originale: una situazione idilliaca, voluta da Dio; una coppia che sospetta e trasgredisce; le domande rivolte all’uomo e alla donna; l’estromissione dallo spazio originario[1]. Ed è proprio al termine di quella scena che Luca fa comparire per la prima volta la parola “chiesa”! A detta dei racconti evangelici stessi, “tornare all’evangelo” non è un glorioso ritorno, un rimpatrio nella terra delle Scritture, di cui rivendichiamo l’appartenenza. All’evangelo ci si accosta con evangelicità, ovvero con quell’autoironia che confessa: ascoltiamo una Parola che non comprendiamo a fondo; proviamo a prendere sul serio l’evangelo di Gesù, nella consapevolezza di non essere migliori degli altri.
Una ulteriore indicazione ci viene dalla comprensione del senso biblico del verbo “tornare”. Noi lo utilizziamo per dire il desiderio di prendere le distanze dalla situazione presente, troppo ingessata nella gestione istituzionale e che si ritrova a fare i conti con un’accelerata “decrescita infelice”: tornare a qualcosa che precede questa situazione insoddisfacente. Per la Bibbia, invece, indica un cammino di conversione. Nelle Scritture ebraiche quel verbo è l’indicatore principale, il più utilizzato nel lessico del pentimento e del cambiamento di vita. Si ricorre ad esso perché, nella sua materialità, indica che la posta in gioco riguarda corpi che mutano direzione, gambe che ritornano sui propri passi, esistenze che invertono il senso del loro procedere. Il Nuovo Testamento aggiungerà a questo immaginario “pedestre” quello “cerebrale” di un cambio di mentalità che renda pensabile e, dunque, possibile un cambiamento di direzione. Dunque, tornare all’evangelo non può essere ricondotto al pur necessario gesto di tornare a leggere le Scritture: è necessaria una conversione. Come nelle prime parole della predicazione di Gesù – parole che sono miniatura del suo insegnamento: “convertitevi e credete all’evangelo”. E la successione delle parole la dice lunga. Ma qui iniziano i problemi: come facciamo a convertirci? È un’operazione possibile? Venti secoli di cristianesimo hanno mostrato tutta la fragilità di questo imperativo. Proclamato nelle chiese e, subito dopo, neutralizzato da una legione di meccanismi di difesa, a conferma della bontà delle nostre scelte e come anticorpo a quella malattia mortale della normalità che è l’evangelo. Cosa vuol dire ascoltare una Parola che esige cambiamento? Com’è ardua la pratica dell’ascolto; per niente scontata! La Parola proclamata nei culti, studiata nei gruppi, pregata personalmente, è realmente ascoltata? Ha la possibilità di incidere radicalmente sulle esistenze dei credenti, sulle scelte delle chiese? Non ci illudiamo, perlopiù, di prestare ascolto alla Parola, perseguendo invece la conferma di quanto già siamo, di quanto già crediamo? Al di là di proclamarci “uditori della Parola”, “chiese della Parola”, credenti che riconoscono il “primato della Parola” e dell’ascolto, il rischio retorico è grande. Dovremmo avere il coraggio di sottoporci al sospetto decostruttivo di un Nietzsche, di un Freud e tornare a porci la domanda radicale su cosa significhi e come sia possibile ascoltare una Parola altra, andando oltre il meccanismo di blocco del cercare conferme. Il tornare, inteso come conversione, domanda un lavoro antropologico, di educazione dei sensi, di bonifica del terreno che dovrebbe accogliere il seme della Parola.
A queste due indicazioni, dal tenore critico – ovvero, provare a tornare all’evangelo non tanto per sapere cosa fare ma per riconoscere di sapere di non sapere ed anche scoprire di non sapere neppure di non sapere! E per raccogliere la sfida ardua di un’apertura esistenziale ad una Parola altra, che domanda conversione – ne aggiungo una terza, in chiave propositiva. “Tornare all’evangelo” non è un tornare a ridire parole antiche, rimosse dal lessico ecclesiastico. Piuttosto, si tratta di riscriverle, ripensandole per questo tempo. La partita non si gioca sulla lettera (come ambiscono a fare le correnti “letteraliste”) e neppure sul campo dell’organizzazione (nuove evangelizzazioni, iniziative missionarie), bensì nei laboratori in cui ci si arrischia nell’operazione creativa della riscrittura delle parole evangeliche. Perché, nel nostro Occidente contemporaneo, anche l’evangelo viene catalogato come moneta fuori corso, inflazionata da scandali e incoerenze. Per giungere a scorgere ancora del fuoco sotto la coltre di cenere a cui abbiamo ridotto l’evangelo, io penso che sia questa l’urgenza evangelica del nostro tempo. Qui il ritorno alle Scritture si traduce nel perseguire la stessa dinamica messa in atto dalla Bibbia, ovvero quella riscrittura che è il collante dei diversi libri biblici, tenuti insieme nella biblioteca biblica non semplicemente l’uno accanto all’altro ma l’uno dentro l’altro. Una dinamica di riscrittura che spiega non solo i rapporti tipologici che intercorrono tra diversi personaggi e differenti eventi narrati ma, ancor più radicalmente, il sorgere di un nuovo corpus letterario, accanto a Torah e Profeti, ovvero gli Scritti sapienziali, che ripensano a fondo le grandi parole della fede per un tempo che non sente più come rivelativa la parola di Mosè o di Isaia. Pensiamo al libro di Giobbe. Ha acutamente osservato Michel de Certeau, a proposito di questo libro: “Quando discuteva la verità che gli veniva dai padri e dagli amici, Giobbe scopriva, come una nudità, la ‘vanità’ di una tradizione che rimane un sapere: mi dite delle verità, che sono generali; ma quale rapporto hanno con la mia situazione? Esse deludono la mia attesa perché la ignorano; le verità sono per me inutili e vane, non mi fanno vivere. Anche se sono riconosciute valide in sé, e forse irrecusabili in sé (e non è sempre questo il caso), le parole dei saggi e dei sapienti deludono, dato che non sono proporzionate alla questione”[2]. Per tornare all’evangelo, cioè ad una Parola che risuoni come lieto annuncio per la vita, oltre la retorica delle parole religiose e innescando processi di cambiamento, la sfida da assumere sta nel ripensare e riscrivere le grandi parole della fede in modo tale che tornino ad essere in relazione con la situazione nella quale ci troviamo. Come osserva ancora De Certeau, la sfida consiste nel rimanere fedeli a quel linguaggio biblico che non è mai “localizzabile in un punto preciso. C’è in questo un’esperienza di cui il tempo è l’elemento chiave”. Un linguaggio che consenta a una mutua gratitudine, “se lasciamo al passato il diritto di resisterci (perché è altro e noi ne dipendiamo) e se abbiamo la forza di resistergli (perché siamo ancora capaci di creare)”[3].
Queste indicazioni che, a mio giudizio, possono favorire una migliore articolazione dell’imperativo del “tornare all’evangelo”, non garantiscono la riforma ecclesiale sperata. Invitano ad osare, ma non esimono dal rischio di fallire il bersaglio. Al fondo sta il coraggio di rischiare, di perdere (persino la vita!), per seguire Gesù e la sua Parola. Per secoli i cristiani sono stati sensibili a questo aspetto della perdita, ma l’hanno interpretato in chiave etica o ascetica: bisognerebbe pensarlo anche in chiave ecclesiologica. Cosa sono disposte a lasciare le chiese per tornare all’evangelo? Il rischio, impossibile da calcolare in partenza, si accompagna, poi, alla consapevolezza che il nostro odierno “tornare all’evangelo” avviene venti secoli dopo e che la storia di cui siamo figli e figlie non può essere saltata. Noi possiamo abbracciare con passione l’imperativo del “tornare all’evangelo”, sapendo però che non sarà risolutivo per quelle persone che si sono fatte un’idea del cristianesimo alla luce di quanto avvenuto nel corso della sua esistenza e hanno maturato un (pre.)giudizio che rende impossibile qualunque idea di ritorno, di ripresa. Non penso agli atei pensosi (merce rara) ma a quell’interlocutore-tipo che non ha nessun problema ad aderire ad una religione civile ma non presterebbe nessuna attenzione ad un programma di riforma evangelica. Per cui dobbiamo arrischiare processi ecclesiali di ritorno all’evangelo, sapendo che non saranno risolutivi. C’è una lunga storia da scontare, che ha reso molti cuori insensibili all’evangelo, impossibilitati a credervi. Per noi che pensiamo che una rinnovata fedeltà alla Parola evangelica sia l’elemento decisivo per operare una svolta, è importante sapere che la storia non è solo il luogo teologico in cui discernere i segni dei tempi (e in base a quelli aggiustare la proposta) ma anche il posto avvelenato in cui dobbiamo scontare i nostri peccati. Da Geremia a Qohelet, le Scritture ci chiedono di fare i conti con tempi connotati e di operare scelte tagliate sulla misura di una determinata situazione.
Dunque, “tornare all’evangelo” non consisterà nell’abbracciare l’arma che consentirà di superare la crisi, poiché l’evangelo radicalizza la crisi di quanti lo ricevono. Piuttosto, si tradurrà nella disponibilità a sottoporsi alla denuncia del divario, ad una dura scuola di autoconsapevolezza della nostra distanza, maturando una nuova identità autoironica. “Tornare all’evangelo” non sarà fare posto ad un Libro ma fare posto ad un progetto di cambiamento e domandarsi quali siano le condizioni di possibilità di una vera conversione, quali le resistenze da combattere. E arrischiarsi lungo questa via, liberi dalla preoccupazione per il risultato (memori dell’avvertimento di Ivan Illich: “l’efficienza corrompe la testimonianza cristiana più sottilmente del potere”), soltanto con la passione di cui – osiamo sperarlo – l’evangelo di Gesù è tuttora capace.
Note
[1] D. Marguerat, Gli Atti degli apostoli. 1 (1-12), EDB, Bologna 2011, 189.
[2] M. De Certeau, La debolezza del credere. Fratture e transiti del cristianesimo, Vita e Pensiero, Milano 2020, 46.
[3] Idem, 62.