di Piero Stefani
Cosa avvenga all'essere umano quando i suoi occhi si chiudono all’esistenza terrena è domanda che non trova risposta nell’esperienza di alcun vivente. Eppure la questione si pone. Per qualcuno l'interrogativo trova nell’animo risposta certa sul versante di una vita che non avrà fine, o su quello opposto di un integrale venir meno; per altri l’aldilà resta il «grande forse» (come lo definì Rabelais). Anzi, nella mobilità che la contraddistingue, la coscienza delle persone può, in tempi successivi, passare dall’una all’altra convinzione o oscillare più volte tra dubbio e certezza.
Il «grande forse» non è estraneo ad alcuni passi biblici. Il più scopertamente dubbioso è contenuto nel Qohelet (3,18-21, passo scelto da Johannes Brahms come primo brano della sua ultima opera: Vier ernste Gesänge).
Io dissi in cuor mio a proposito della condizione umana:
Iddio lo fa per mettere alla prova gli uomini e per far vedere loro che bestie sono a loro stessi.
La sorte degli uomini e quella delle bestie è infatti un’unica sorte per tutti loro,
come c’è morte per gli uni, c’è morte per gli altri, per tutti vi è un unico respiro (rùach).
Poiché non c’è qualcosa che resta nell’uomo più di quanto non avvenga per le bestie, tutti sono un soffio che svanisce.
Tutti si incamminano verso un solo luogo e tutti tornano alla polvere.
Chissà se l’alito (rùach) degli esseri umani salga verso l’alto
e se l’alito (rùach) delle bestie scenda verso il basso per sprofondare sotto terra?
(trad. it. dell’autore)
In poche righe Qohelet passa dalla certezza dell’esistenza di un «solo respiro» a un debole «forse» e a un «chissà?». La prospettiva, agli orecchi di qualcuno, può suonare anomala e consegnabile solo a uno strange book senza precedenti noti o espliciti eredi nel pensiero ebraico[1]. Un’eccezione, o forse una concessione, che dice allo scettico: guarda che nella Bibbia c’è un angolino anche per te. In realtà tenendo conto dell'epoca in cui è fatta risalire la stesura del Qohelet (oggi in genere ascritto all’età tolemaica, III sec. a.C.) quanto, sulle prime, può apparire strange in realtà non lo è.
È opinione comune che l'antropologia biblica non conosca alcun dualismo anima-corpo. Per essa non c'è un corpo naturaliter corruttibile e un'anima naturaliter immortale. Per la Bibbia non vale quanto scrisse il filosofo neoplatonico Celso: «così l'anima è opera di Dio mentre la natura del corpo è diversa. Sotto questo aspetto non c'è nessuna differenza tra il corpo di un pipistrello, di un verme, di una rana e di un uomo. La natura infatti è identica e analoga la corruttibilità». Nella Scrittura è presente una concezione relazionale dell'essere umano articolata in tre ambiti: carne (ebraico, basàr, greco sarx), anima (ebraico, néfesh; greco, psychè), spirito (ebraico, rùach; greco, pneuma). Di solito si afferma che la persona umana è (non che ha) carne, anima e spirito. Vista nella prospettiva della sua caducità è «carne», colta nel suo affermarsi come essere vitale è néfesh, scorta nella sua dimensione relazionale con l'altro da sé - Dio compreso - è rùach (fermo restando che in Qohelet rùach è anche il respiro - alito che accomuna l'essere umano a ogni vivente). Si tratta in ogni caso di un'antropologia che riguarda coloro che vivono su questa terra. Poi si va tutti nello Sheol. Dopo la morte la sorte dei giusti e quella degli empi è la stessa. Tutti vanno incontro a un'unica forma di sopravvivenza larvale. Non la morte, bensì l'aldilà è l'autentica livella. Dell'umbratile dimora dei morti ben poco si può dire: «Tutto quanto la tua mano è nelle condizioni di compiere con vigore, fallo: infatti nello Sheol, nel quale sprofonderai, non c’è alcuna opera, né intelligenza, né conoscenza, né sapienza» (Qo, 9,2-10).
Che nello Sheol si sia tagliati fuori da ogni relazione con altri esseri è visione saldamente attestata nella Bibbia ebraica. Il re Ezechia, dopo essere stato miracolosamente risanato a opera del profeta Isaia, pronuncia un inno che ben esprime la condizione di separatezza propria dei morti:
Io dicevo: «A metà dei miei giorni me ne vado,
sono trattenuto alle porte dello Sheol
per il resto dei miei anni».
Dicevo: «Non vedrò più il Signore
sulla terra dei viventi,
non guarderò più nessuno
fra gli abitanti del mondo»
(Is 38,10-11)
A uno sguardo storico questa separatezza appare però non un dato originale bensì una costruzione successiva. Da sempre, come indicano l’antropologia culturale, l’etnografia e l’archeologia, i morti sono nel contempo esseri deboli e potenti; il fatto che siano solo estinti contrasta con la forza benefica e soprattutto malefica loro assegnata. Nella Bibbia ci imbattiamo in ripetute proibizioni della negromanzia, presentate anche come una risoluta presa di distanza dagli usi propri delle popolazioni cananee. Chi compie incantesimi o consulta negromanti o indovini e interroga i morti «è in abominio al Signore» (Dt 18,11-12). Ponendosi sul piano logico è scontato concludere che si proibisce quello che è possibile, l’impossibile non ha bisogno di divieti: non è proibito vivere due millenni fa. Il divieto di evocare i morti esige la loro evocabilità. Quest’ultima sarebbe del tutto impensabile se lo Sheol comportasse l’effettiva rottura di ogni rapporto tra vivi e morti. Se dal piano teorico ci si sposta poi a quello pratico, è obbligo constatare che di solito si proibisce non solo quanto è attuabile, ma ciò che è effettivamente compiuto. Del resto nella Bibbia stessa ci è narrato, sia pure come segno di perdizione, il caso di evocazione dell’ombra di Samuele compiuta, su richiesta di Saul, dalla negromante di En-Dor (cfr. 1Sam 28,3-25). La comparsa dell’«ombra di Samuel» realizza quanto escluso dalla concezione classica dello Sheol, una concezione quest'ultima che riflette la posizione ideologica dei redattori biblici mentre non collima né con gli strati più antichi del pensiero ebraico, né con le pratiche presenti nel mondo israelitico.
Qohelet è libro tardo e, secondo qualche studioso[2], esso rappresenta una reazione consapevole alla nascente apocalittica, una visione del mondo, per definizione, familiare con l’aldilà. A prescindere dall’attendibilità di questa suggestiva ipotesi, resta indubbio che la nascita della convinzione di un destino diverso nell’oltretomba per i giusti e per i malvagi sorge in Israele in seno all’apocalittica. Da allora in poi, in ambito ebraico, la dialettica non è più solo quella tra pratiche e idee; infatti anche le visioni teoriche si polarizzano. C’è apocalittica ma ci sono anche altre visioni. I più tardi sadducei continuarono a essere negatori di ogni forma di immortalità[3]. I termini del discorso intorno all’apocalittica sono complessi e discussi, tuttavia è dato certo che, all’interno della Bibbia ebraica, vi sia un solo testo riconducibile, senza esitazioni, a questo filone: si tratta del libro di Daniele, composto poco prima della metà del II secolo a.C. Tuttavia è altrettanto sicuro che la corrente sorse in un’epoca parecchio precedente. Le due grandi novità proposte dall'apocalittica giudaica sono: l’origine preterumana del male (da qui inizia la lunga storia degli angeli ribelli) e l’immortalità dell’anima, capace di vivere, a prescindere dal corpo, in una dimensione beata.
Precedenza del male e immortalità dell’anima (o risurrezione dei corpi) sono condizioni indispensabili perché ci sia una discriminazione nell’aldilà e si apra in tal modo la prospettiva di una salvezza ultraterrena posta, per forza di cose, al di fuori della sfera di influenza delle forze umane.
Molti di quelli che giacciono nel suolo polveroso si sveglieranno: questi alla vita per sempre, quelli per la vergogna e l’infamia per sempre; gli illuminati (ha-maskilim) risplenderanno come lo splendore del firmamento, coloro che hanno fatti giusti molti, risplenderanno come le stelle in eterno (Dn 12,1-3).
Dal testo non è ben chiaro quale sia l’estensione di questi molti. «Questi» e «quelli» sono forse due “categorie” di risorti, due esiti possibili della risurrezione, uno rivolto alla salvezza e l’altro alla dannazione? Oppure ciò significa che i malvagi non risorgeranno e resteranno per sempre in preda alla morte? Anche qui ci sono dei «forse». In ogni caso nel passo di Daniele non si dà alcuna descrizione della sorte di coloro che sono nella vergogna, mentre qualcosa si dice dei beati e del loro splendore. Potremmo concludere che ci si trova di fronte a una dimensione paragonabile al paradiso, mentre non esiste alcuna indicazione per un inferno in cui i dannati sono differenziati in base alle colpe da loro commesse.
In faccia alla morte un peso determinante è legato all'età in cui la “Signora” decide di fare la sua definitiva visita. Questo dato esistenziale si relativizza quando si ritiene che quanto davvero conta è terminare la vita terrena da persone giuste. La morte è sorella ambivalente: è carezzevole per quelli che si trovano nelle «sanctissime voluntati» divine, ma non per coloro che sono nei «peccati mortali». Ciò vale sia se si è vecchi sia se si è giovani. Siamo dunque lontani dall'ambivalenza esistenziale a cui si riferisce il Siracide (42,1-2) secondo la quale il pensiero della morte è amaro «per l'uomo che vive sereno nella sua agiatezza» mentre esso è caro all’«uomo indigente e privo di forze». I due stati d'animo, pur antitetici, sono comunque accomunati dal fatto di essere pensieri che albergano nella mente dei vivi a motivo della loro condizione attuale. Qui il “dopo” non svolge alcun ruolo. Si sa cosa si lascia, non già dove si sta andando.
Il frammento di Menandro (111 K.-Th) «muor giovane colui che gli dei amano» (noto soprattutto grazie alla sua resa leopardiana «muor giovane colui ch’al cielo è caro»), è diventato consolatoria cifra laica per la morte giovanile. La mesta melodia delle sue corde affascina gli animi pessimisti. La sua forza attrattiva va giudicata in relazione alla parte sperimentata, non a quella ignota. Il detto sta a significare che la vita non è bella, anzi che essa diventa sempre più amara quando si va in là con gli anni. Morire giovani equivale a essere preventivamente risparmiati dai giorni durante i quali si è costretti a dire: «non ci provo alcun gusto» (Qo 11,1).
In periodo ellenistico il testo ebraico (scritto però in greco) più efficace per misurare affinità e distanze rispetto al detto di Menandro si trova nel deuterocanonico libro della Sapienza. In esso la riscrittura delle ragioni per cui può dirsi buona la morte giovanile fa i conti con il presupposto biblico in base al quale una lunga vita è una benedizione che spetta al giusto. Alla fine dei suoi giorni l’integro Giobbe muore, come i patriarchi, vecchio e sazio di vita (cfr. Gb 42,17; Gen 25,8; 35,29). Il giusto muore carico di anni. Su questo sfondo sembra impossibile trovare ragioni plausibili per affermare che è buona cosa varcare presto le soglie della morte. Il libro della Sapienza lo sa; propone perciò di rovesciare i fattori. Il confronto resta ancorato alla vita e alla giustizia; tuttavia i due termini sono assunti in senso inverso: chi è diventato giusto ha reso completo il suo vivere. Egli dunque è maturo per morire.
I primi cinque capitoli della Sapienza si reggono su un duro confronto tra il giusto e l’empio. L’affermazione dell’immortalità è forgiata in questo crogiolo. Il carpe diem diviene sigillo dell’empietà non a motivo dell’edonismo. La ragione è un'altra: questo modo di agire sembra garantire in maniera definitiva il trionfo dell’ingiustizia. Nulla vi è di più caratteristico nei primi capitoli della Sapienza dell’intreccio tra godimento e sopraffazione:
I passi citati contengono un itinerario a tre tappe che parte dalla melanconica constatazione della umana caducità, transita nell’invito a gioire e sfocia nella sopraffazione. Se non c’è immortalità tutto è lecito; nulla allora è capace di smentire che la giustizia non coincida con la forza. Il prevalere della morte diviene antitesi alla signoria di Dio. In un brano della Sapienza inserito nella rubrica delle letture previste per le messe funebri cattoliche, la morte giovanile è prospettata come segno della vicinanza divina per via di una giustizia già raggiunta. Essa, pienamente custodita presso Dio, è però continuamente insidiata ed esposta se collocata nell’orizzonte terrestre: «Giunto in breve alla perfezione, ha compiuto una lunga carriera. La sua anima fu gradita al Signore; perciò egli lo tolse in fretta da un ambiente malvagio» (Sap 4,14).
La nota pessimistica su questa vita resta. L’esistenza del giusto è continuamente minacciata dall’esterno e dall’interno; la sua stessa fedeltà può cedere. Bisogna essere messi in salvo da un «pelago periglioso», vale a dire dal mondo in cui spadroneggiano i prepotenti. A essere buona non è quindi la morte giovanile, ma la morte del giusto. L’immortalità appare l’unica risposta inventata da Dio per dar senso a un mondo dominato da quanto da Lui non chiamato all'essere: «Dio non ha creato la morte e non gode della rovina dei viventi» (Sap 1,13). In definitiva, la morte non è padrona assoluta della terra soltanto se c’è un aldilà in cui la sorte dei giusti differisce da quella degli empi.
Note
[1] Cfr. E. J. Bickerma, Quattro libri stravaganti della Bibbia, Pàtron, Bologna 1979.
[2] Cfr. P. Sacchi, Storia del Secondo Tempio. Israele tra VI secolo a.C. e I secolo d.C., SEI, Torino 1994, pp.165-178.
[3] Cfr. At 23,6-8; «I Sadducei ritengono che le anime periscano con i corpi» Giuseppe Flavio, Antichità giudaiche XVIII, 16-17 (trad. it. a cura di L. Morali, Utet, Torino 1990, vol. II, p. 1107).