di Carlo Bolpin
Molto ricco continua il dibattito sulle “celebrazioni in tempo di pandemia”, ma rischia di restare nascosto quello che considero il nodo di fondo. Inizia a porlo il documento “Liturgia e futuro”, 25 Maggio 2020, scritto da Andrea Grillo con Alberto Dal Maso e Luca Palazzi, quando indica che le nuove sfide riguardano il “futuro ecclesiale, oltre che rituale”.
E ancora: "Improvvisamente la chiesa si è scoperta afona o impreparata nell'accompagnare le situazioni più fragili e angosciose. [...] Il lessico utilizzato ha tradito spesso il ricorso a termini, concetti, schemi di pensiero che immaginavamo sorpassati, definitivamente archiviati, e ha evidenziato altresì una certa confusione che denota una carenza di comprensione del senso profondo del celebrare".
Si manifesta ciò che rimaneva nascosto
La domanda che pongo è se questa afonia nel celebrare renda manifesto quanto rimaneva nascosto: proprio il vuoto delle parole, la perdita della capacità di annuncio della buona novella nel tempo presente. Non ho sufficiente conoscenza delle diffuse sperimentazioni di forme celebrative domestiche per capire quanto queste siano rimaste dentro espressioni consolatorie e devozionistiche e quali contenuti, quale annuncio invece abbiano sviluppato in relazione al vissuto personale, familiare e comunitario. Abbiamo assistito nelle chiese al ritorno a forme di clericalismo, sacrali, miracolistiche. Il desiderio di tornare alla normalità mascherava la nostalgia di riprendere i linguaggi e i contenuti di prima del Concilio e della riforma liturgica, per ritornare alla sicurezza della vecchia teologia sulla Chiesa e sul sacerdozio. La Pandemia ha però reso visibile il declino con le chiese che prima erano sempre più vuote e che lo saranno sempre più, anche a causa dell’abitudine a fare a meno del prete e dei riti, con cui viene identificata la chiesa.
Il “segno di Giona”
Ma il nodo non sta nell’inadeguatezza della comunicazione e del linguaggio, ma nella perdita della capacità di testimoniare la fede oggi e nella mancanza della necessaria conversione delle comunità cristiane al Vangelo. Il rinnovamento liturgico si pone necessariamente dentro questo processo. Oggi potrebbe essere per noi un “momento favorevole” quindi per ripensare e “purificare” il cristianesimo nella post-cristianità. Il nodo da affrontare è che nel nostro vissuto prodotto dalla pandemia si percepisce l’irrilevanza dell’annuncio cristiano e della chiesa. Occorre prendere consapevolezza dell’assenza di parole e di gesti per dare ragione della fede cristiana oggi dinanzi al Covid-19, che ha prodotto una svolta culturale, antropologica, di cui non si è capita la portata. La chiesa giustamente si affida ora alla scienza e al progresso umano, alle competenze mondane. Ma “Cosa” resta della fede nella salvezza, nella redenzione dal male e dalla sofferenza? Delle immagini di Dio e della sua azione nella storia e nell’universo? Attualizzando quanto detto da Gesù, anche la nostra generazione non sa cogliere i segni del tempo, il “segno di Giona” presente oggi. Verifichiamo anche visivamente quanto scritto da Bonhoeffer “Dio inteso come ipotesi di lavoro morale, politica, scientifica, è eliminato, superato; ma lo è ugualmente anche come ipotesi di lavoro filosofica e religiosa” (in “Resistenza e resa”). Anche la malattia e la morte sono “tolte” alla chiesa, non sono più il luogo in cui aveva la sua residua presenza, l’ultima parola.
Tentativi irrilevanti
Al prete si sono sostituiti i “nuovi angeli”, infermiere e infermieri. I loro gesti e le loro parole bastano, come se Dio non ci fosse. La religione non serve come motivazione alla compassione. La chiesa non serve nemmeno più per l’ultimo saluto. Irrilevanti sembrano i tentativi di recuperare il senso tradizionale della fede cristiana come aiuto ad affrontare e a superare le difficoltà, trasmettere speranza, conforto e incoraggiamenti nei momenti di sofferenza che stiamo vivendo. Illusorio è anche offrire a coloro che in questi tempi difficili si sacrificano per gli altri la sicurezza che il loro amore non sarà inutile. Non è credibile recuperare nuove immagini di Dio creatore e di Cristo redentore – come ho letto - in quanto garanti degli sforzi della scienza e del meglio dell’umanità, che operano verso il superamento del male, così realizzando il disegno evolutivo di Dio. La chiesa rivelerebbe quello che il mondo non vede: la presenza di Dio sia in coloro che soffrono sia in coloro che amano e servono gli altri (cristiani inconsapevoli). La pandemia viene vista un’occasione unica per mostrare come la pasqua offra la sicurezza che permette di attraversare qualsiasi forma di negatività e di sofferenza con la speranza che si cambieranno in gioia e pienezza. Come nella natura, la vita tornerà a vincere.
Moderne immagini idolatriche di Dio
In molte omelie viene anche detto come l’esperienza della chiusura in casa porti a una visione di essenzialità che invita a dare importanza alle cose che più contano e a lasciar da parte ciò che è secondario: ed ecco la chiesa l’unica a presentare ciò che conta davvero. Se sono cadute le illusioni della secolarizzazione sulle “magnifiche sorti e progressive” illusorie sono anche queste strade “apologetiche” tentate. Il pericolo è quello di rinnovare immagini moderne ma sempre idolatriche di Dio e della Chiesa, un supermercato di servizi, anche tecnologici, per star bene, capace di ridare fiducia per superare la depressione. Si rivendica la libera presenza dei servizi offerti dalla chiesa come fattore potente di ripresa della fiducia collettiva, della coesione sociale, della paziente speranza nel futuro. Si resta attaccati all’ultimo ruolo, che si crede possibile come religione civile, come un sistema di risorse – convinzioni religiose, riti, preghiere – che aiutano coloro che se ne servono a superare situazioni difficili o di crisi. Una seconda via mi sembra si tenti, intrecciata con questa: quella di una apologetica del limite, della fragilità della scienza e dell’autonomia delle opere umane per superare questo limite. Si usa la condizione umana di fragilità per recuperare il ruolo della religione: ci siamo scoperti impotenti e ridimensionati dal virus, così torniamo a rivolgerci a Dio. Ma è proprio così? Il virus diventa uno strumento di Dio? Si può utilizzare il virus per recuperare una visione teologica affidando a Dio una funzione sociale e spirituale?
Quale futuro per il cristianesimo?
Ma se restano illusori questi tentativi di dare alla religione una funzione che ormai non ha, cosa resta al cristianesimo? Se nemmeno le domande, tantomeno le risposte, interessano più quale futuro per la fede stessa? Giustamente e finalmente inattuali, senza alcuna nostalgia se non estetica, le grandiose festività e edificazione di basiliche come espiazione dei peccati e come ringraziamento della fine dell’epidemia, mi sembra che, nelle diverse versioni precedentemente indicate, al fondo rimane la visione non dissimile dell’idea moderna della Scienza che riduce la malattia e la morte a un fatto necessario, neutro, che non si pone come problema drammatico dell’esistenza. La morte un fallimento che rientra nel processo evolutivo del cosmo. Anche l’attuale pandemia diventa così un’occasione per sperimentare nuovi modelli di conoscenza e di solidarietà. La speranza religiosa, garante di quella mondana, toglie il dramma della sorte del singolo assoluto irripetibile insostituibile. Forse, la via da riprendere è se si comprende che per Cristo la sofferenza del singolo essere è una sua sofferenza, un problema che trascende l’immanenza storica e pone il tragico della natura e dell’esistenza umana. Ha oggi significato un’esperienza religiosa capace di dare sollievo e una spiritualità che offre energia di vivere, nutrimento e benessere, immersione nella creatività della vita, ma che non vive la contraddizione delle domande poste dalla moltitudine dei crocifissi, nelle situazioni di guerra, di miseria, di migrazione, di disastri ambientali?
Vivere la notte del Getsemani
Ogni teologia della creazione e della redenzione deve fare i conti con queste realtà irredente, irredimibili. I teologi hanno scritto che Auschwitz contesta la proclamazione della vittoria della croce, è la “stella dell’irredenzione” che divelle lo strato più profondo dell’illusione di ogni pensiero dialettico della storia, lo strato teologico. Non è possibile giustificare alle vittime il disegno divino, inglobare il male nel bene, la colpa nel progetto di redenzione, di salvezza definitiva. La domanda era (ed è): che significa ora per le vittime innocenti la salvezza già realizzata oggi dall’evento di Cristo? Di fronte a fenomeni come la pandemia e alle capacità distruttive della natura e dell’uomo, è messa in discussione l’dea stessa di creazione, di un disegno divino intelligente, di una energia buona di Dio che continua ad agire. Forse, la via è vivere la notte come Gesù nell’orto e nella croce, è passare dal buio vissuto dai discepoli quando hanno visto che tutto crollava, si sgretolava. Bisogna vegliare nel crollo fino in fondo della cristianità e di ogni teodicea e idolatria, per testimoniare la Gloria di Cristo appeso in croce fino alla fine dei tempi, Dio che conosce la sofferenza. Forse, come in Ezechiele, per accogliere il libero e gratuito dono di Dio occorre confessare che “le nostre ossa sono disseccate e la nostra speranza è perduta”, e così salvare il nome di Dio nella storia.
L'articolo è stato pubblicato sul sito della Rete di Viandanti, a cui Esodo aderisce.