di Maria Antonietta e Domenico Canciani

La fede, in Simone Weil, non nasce da un itinerario conoscitivo d’ordine concettuale, ma da un vissuto personale, un'esperienza di contatto diretto col Cristo, col Dio incarnato.

Il suo percorso di fede non si presenta quindi come esito di un processo intellettuale che tenda, secondo il modello classico, tomistico, a provare, o anche solo giustificare razionalmente l'esistenza di Dio. Si potrebbe dire che Simone Weil non tenta di “catturare Dio”, né con l’acume della mente né con la tenacia della volontà. È vero piuttosto il contrario: si lascia catturare da Dio (scrive: «Dio è disceso e mi ha presa»). E da ciò ricava una convinzione di ordine teologico più generale: non è mai l'uomo che va verso Dio, è sempre Dio che va verso l'uomo - parla esplicitamente di «discesa di Dio» - mentre ciò che dovrebbe essere proprio dell'uomo è l'atteggiamento di attesa, l’apertura all’incontro. Dice nei Quaderni: «Non sta all'uomo andare verso Dio, ma a Dio andare verso di lui» (Q II, p. 212). 
Lei, di formazione illuminista, una volta investita dall’esperienza di fede, non nega affatto il primato della ragione. Anzi, più volte ne conferma il valore strumentale, altissimo, nel comprendere e valutare le realtà mondane. Ma, oltre l’ambito della ragione, riconosce quello in cui può operare solo l’intelligenza soprannaturale, che nell'essere umano si attiva mediante il contatto mistico col divino. Contatto misterioso, indicibile, ma, al tempo stesso, concreto, strettamente personale. Dono, grazia: «Rivelazione e ragione, fede e ragione; la ragione è sempre l'unico strumento. Ma vi sono cose che la ragione afferra soltanto nella luce della grazia» (Q II, 159). 
Ciò vale, in particolare, in rapporto ai misteri della fede cattolica, così come vengono espressi e, in un certo senso, codificati nei dogmi. 

I misteri della fede cattolica (e delle altre tradizioni religiose o metafisiche) non sono fatti per essere creduti da tutte le parti dell'anima. La presenza di Cristo nell'ostia non è un fatto […] altrimenti non sarebbe soprannaturale. […] Solo la parte di me fatta per il soprannaturale deve aderire a questi misteri. Ma tale adesione è piuttosto amore che credenza. […] I misteri della fede non possono essere affermati né negati, ma posti al di sopra di ciò che affermiamo e neghiamo. Dal momento che ci troviamo, di fatto, in un'epoca di incredulità, perché trascurare l'uso purificatore dell'incredulità? (Q II, pp. 166-167). 
L'agnosticismo, posizione da lei tenuta per buona parte della sua vita, fino agli ultimi anni, e l'ateismo stesso, sono esperienze di messa in discussione radicale della credenza religiosa. Eppure, non solo non ostacolano l'esperienza di fede, ma possono persino favorirla, in quanto processi di purificazione capaci di liberare la mente da quanto, in ogni credenza religiosa, finisce per rivelarsi inessenziale perché inerente a un orizzonte mitico-simbolico e linguistico di cui l'uomo d'oggi non coglie più il senso. 
Inoltre, il passaggio attraverso l’esperienza dell’agnosticismo o dell’ateismo, favorendo  lo sviluppo del pensiero critico, se in seguito si aderisce alla fede, dovrebbe maggiormente preservare dal rischio di viverla come mera credenza, cioè in modo rigidamente dogmatico, oppure come esperienza consolatoria: miracolismo, attesa di compensazioni ultraterrene, ecc. 
Questa sua convinzione resta salda e anzi si rafforza dopo l'esperienza mistica personale. Leggiamo sempre nei Quaderni: «La religione in quanto fonte di consolazione è un ostacolo alla vera fede, e in questo senso l'ateismo è una purificazione. Io debbo essere ateo con la parte di me che non è fatta per Dio. Tra gli uomini la cui parte soprannaturale non si è destata, hanno ragione gli atei e torto i credenti» (Q II, p. 165). 
Importante è però capire in che senso la sua esperienza di fede da lei stessa è qualificata con l'attributo di mistica. Non vi è nulla di sentimentale né intimistico nel suo contatto personale col Dio incarnato, nulla di ciò che abitualmente si pensa o si sa della mistica femminile. Lei stessa ha sempre avuto massima reticenza a parlarne: ne ha parlato solo, molto sobriamente, al padre Perrin e all'amico poeta Joe Bousquet. Per comprenderne qualcosa, occorre partire dal presupposto che la sua concezione di Dio è del tutto apofatica (in questo si richiama, anche in modo esplicito, alla mistica renana di Meister Eckart). Questo significa che su Dio la nostra mente non sa e non può dire nulla, in quanto non v'è concetto che sia in grado di racchiudere la realtà divina nelle maglie di una definizione logica: non solo non è possibile dimostrarne l’esistenza, ma neppure si può dire alcunché della sua essenza. Dio è l'Inconoscibile: «La fede. Credere che niente di ciò che noi possiamo afferrare è Dio. Fede negativa. Ma credere anche che ciò che non possiamo afferrare è più reale di ciò che possiamo afferrare» (Q II, p. 142). E scrive anche: «Dio e il soprannaturale sono nascosti e senza forma nell'Universo. È bene che siano nascosti e senza nome nell'anima. Altrimenti si rischia di assumere sotto questo nome qualcosa di immaginario» (Q II, p. 154). 
Il mistero può essere solo accolto e contemplato con attenzione, con amore, con sete di verità, senza la pretesa di afferrarlo o, peggio ancora, di definirlo. Altrimenti la fede degenera in idolatria. Ma a Simone Weil sta a cuore precisare la nozione stessa di mistero. Lo fa in termini di passaggio al limite, ovvero salto conoscitivo da un ambito all'altro: dall'ambito della ragione dialettica, tutto umano, a quello soprannaturale (intuizione, illuminazione, grazia che si offre all'attenzione e alla contemplazione). È utile leggere come è illustrato questo salto. 

La nozione di mistero è legittima quando l'uso più logico, più rigoroso dell'intelligenza porta in un vicolo cieco, a una contraddizione inevitabile, nel senso che la soppressione di un termine rende l'altro vuoto di senso e porre un termine costringe a porre l'altro. Allora la nozione di mistero, come una leva, trasporta il pensiero dall'altra parte del vicolo cieco, dall'altra parte della porta che non è possibile aprire, al di là dell'ambito dell'intelligenza, al di sopra. Ma per pervenire al di là dell'intelligenza, bisogna averlo attraversato fino in fondo, e seguendo un percorso tracciato con rigore irreprensibile. Altrimenti, non si è al di là, ma al di qua. (Q IV, pp. 164-165). 
Tutti i misteri essenziali della fede (incarnazione, quindi divinità e umanità compresenti in ugual misura in Gesù; trinità, ovvero sintesi perfetta di unità e molteplicità, morte e risurrezione...), sottoposti al vaglio della ragione (come occorre che sia, e fino in fondo) culminano in una aporia, cioè un vicolo cieco, una contraddizione insolubile, una porta chiusa.
Il mistero agisce allora come una «leva», che, nella sua apparente imponderabilità, permette il salto al gradino più alto, quello dell’intelligenza soprannaturale. 
Ma in qual modo ciò avviene? Qui entra in campo un'altra intuizione decisiva nella spiritualità di Simone Weil: il valore della passività, della ricettività, dell’attesa paziente di un’illuminazione, che è l'opposto dello sforzo “muscolare” di volontà e intelletto; è luce che promana dalla verità stessa. Proprio perciò, è grazia. Il concetto fondamentale è quello greco di verità intesa come alètheia,  come uno svelarsi, un togliersi, uno dopo l'altro, dei veli che coprono la realtà e ne impediscono la visione. Questo processo veritativo non è un atto di forza della mente. Nei limiti e nella misura in cui si dà, esso è una visione d'insieme, un lampo di luce, grazie al quale, d’un tratto, le contraddizioni non si manifestano più come opposizioni irriducibili, ma come correlazioni: non aut/aut, ma et/et. (es. Gesù Cristo è sia uomo sia Dio; la condizione umana è segnata sia dalla sventura sia dalla gioia, la natura contiene in sé sia l’orrore distruttivo sia il dono della bellezza, ecc.). Dietro queste immagini c'è il mito platonico della caverna, su cui spesso Simone Weil torna a riflettere nelle sue pagine: la condizione corrente degli uomini è  il vivere nella caverna; avere quindi, senza saperlo, una conoscenza alterata, distorta, della realtà. Uscire dalla caverna comporta uno strappo doloroso, e non solo della mente, ma di tutto se stesso, in quanto l’uomo preferisce la schiavitù alla libertà, e con le sue sole forze mai saprebbe liberarsi dalle catene. La visione piena della luce solare, all’aperto, non è frutto di sforzo, ma evento di illuminazione, che irradia dall’alto. Dopo essere stato investito dalla luce, però, l’uomo liberato dovrà tornare nella caverna ad aiutare i propri simili a liberarsi a loro volta. Quindi la dimensione metafisica dell’esperienza non è affatto scissa da quella politica, anzi. Le due realtà sono intrinsecamente connesse, al punto che l’una implica necessariamente l’altra. (Si rimanda, per chi voglia, al mito della caverna in Platone, Repubblica, Libro VII).  
Va poi precisato che, per Simone Weil,  non è solo nell'ambito delle verità di fede che il pensiero, passando di soglia in soglia, si scontra con contraddizioni insanabili. Lo stesso capita ogni volta che un ragionamento d’ordine filosofico, portato avanti col massimo rigore, si spinge fino al limite della comprensione razionale. Simone Weil lo dice servendosi di un linguaggio denso di paradossi. 

Il metodo proprio della filosofia consiste nel concepire in modo chiaro i problemi insolubili nella loro insolubilità, quindi nel contemplarli senz'altro, fissamente, instancabilmente, per anni, senza nessuna speranza, nell'attesa. [...] Il passaggio al trascendente avviene quando le facoltà umane – intelligenza, volontà, amore umano – cozzano contro un limite, e l'essere umano resta sulla soglia, al di là della quale non può fare un passo, e questo senza lasciarsene distogliere, senza sapere che cosa desidera e teso nell'attesa. (Q IV, p. 363). 
Dunque, essenziale, salvifica, si rivela l'accettazione del vuoto, la capacità di reggere a quella che lei definisce “estrema umiliazione dell'intelligenza”. Solo una mente geniale si spinge a tanto; gli esseri mediocri amano adagiarsi nelle false certezze, in filosofia come in religione, pur di non fare i conti con questo vuoto. Il vuoto è la notte oscura, della mente e del cuore, è l'esperienza mistica per eccellenza: implica la coscienza dell'inafferrabilità del mistero e, al tempo stesso, l'attesa che un raggio di luce discenda. Vale la pena ricordare che la notte oscura è l'immagine dell'esperienza mistica così come è raccontata dal grande mistico spagnolo San Giovanni della Croce, al quale la sensibilità di Simone Weil è molto vicina. I richiami, nei suoi scritti, sono frequenti. 
Ma parlare del vuoto è parlare dell'assenza di Dio in questo mondo: constatarla, di fatto, nella storia, nei suoi drammi, questa tragica assenza. Il mondo contemporaneo, per Simone Weil, è caduto in preda a una totale dismisura. Lo dice del suo tempo, come anche noi possiamo dirlo del nostro. Ovunque v'è eccesso, v'è rottura dell'armonia, a tutti i livelli dell'esperienza umana: psicologico (crisi dell’identità del soggetto), sociale (frenesia consumista, accaparramento di ricchezze, esasperazione della conflittualità tra individui e gruppi (la guerra ne costituisce l'esito estremo), politico (collasso delle democrazie e dei partiti, particolarismi, localismi, lotta tra gruppi di potere, ecc.), ecologico (sfruttamento dissennato di risorse naturali), bioetico (la scienza piegata quasi interamente alle esigenze di una tecnica percepita come idolo onnipotente e, di conseguenza, l'ideologia del tutto è lecito se tecnicamente possibile), religioso (sia in termini di vecchi e nuovi integralismi, sia, al contrario, come nichilismo di massa, che poggia su un giudizio di irrilevanza di qualsiasi domanda sulla trascendenza). La dismisura, del resto, non è il tratto dominante solo del mondo contemporaneo; essa è sempre stato l’atteggiamento di fondo dell'uomo, la modernità non ha fatto che accelerarlo e renderlo comportamento di massa. Frequente, nei testi di Simone Weil, è il riferimento alla tragedia greca, in cui la hybris (dismisura, tracotanza) è alla radice del male che il protagonista attira su di sé e sulla sua comunità, nella misura in cui non riesce a liberarsene. C'è un altro termine greco con cui definisce questa stessa radice del male nell'uomo: pleonexia. «La pleonexia è il peccato originale. Desiderio d'ingrandirsi». (Q III, p. 333). La tragicità della condizione umana si lega alla contraddizione, insolubile, tra l'infinita miseria dell’uomo e la sua aspirazione al massimo della potenza: atteggiamento che induce all'uso indiscriminato della forza ogni volta che se ne dà concreta possibilità. A rendere il quadro più problematico, si aggiunge l'attaccamento, che è un atteggiamento di fondo dell'essere umano in tutti i suoi legami con la realtà che lo circonda: attaccamento alle cose, ai beni parziali, ai falsi beni, ai desideri, all'ideologia, a una determinata credenza religiosa, alla famiglia, al gruppo d'appartenenza, soprattutto attaccamento a se stessi...
L'antidoto non può che essere il distacco, che Simone Weil considera un'esperienza spirituale essenziale (in questo leggiamo sia l'influsso dello stoicismo greco, sia quello delle filosofie e religioni orientali, attentamente studiate durante il soggiorno a Marsiglia). La pratica del distacco si offre all'uomo come disciplina interiore che porta a svincolarsi da quella centralità che la nostra immaginazione, spinta dal desiderio di potenza, ci illude di occupare in questo mondo, come singoli e, ancor più, come specie umana. Leggiamo le sue parole:

 Al pari di Dio, che è al di fuori dell'universo e nel contempo ne costituisce realmente il centro, ogni uomo immagina di essere al centro del mondo. […] Noi siamo nell'irrealtà, nel sogno. Rinunciare alla nostra immaginaria collocazione al centro, rinunciarvi non solo con l'intelligenza ma anche nella parte immaginativa dell'anima, significa destarsi al reale, all'eterno, vedere la vera luce, udire il vero silenzio. [...] Svuotarsi della propria falsa divinità, negare se stessi, rinunciare a essere con l'immaginazione il centro del mondo, riconoscere che tutti i punti del mondo sono centri a pari titolo, e che il centro vero è situato al di fuori del mondo, significa acconsentire al regno della necessità meccanica nella materia e al regno della libera scelta al centro di ciascuna anima. Un simile consenso è amore. La faccia di questo amore rivolta alle persone pensanti è carità verso il prossimo; quella rivolta alla materia è amore per l'ordine del mondo, ovvero – che è poi la stessa cosa – amore per la bellezza del mondo. (“Forme dell'amore implicito di Dio”, in Attesa di Dio, p. 119-120).

Questo brano, con un linguaggio poetico e rigoroso al tempo stesso, sintetizza alcuni punti centrali della riflessione spirituale di Simone Weil, cui in parte abbiamo già accennato. Se, rispetto al contatto mistico col divino, l'unico atteggiamento possibile da parte dell'essere umano è l'attesa, per quanto invece riguarda il tema della libertà, esso non va certo inteso come libertà d’agire anche al di là delle proprie risorse, fino all’assenza totale di limiti, fino all’arbitrio, alla prevaricazione. Al contrario, per Simone Weil, la libertà che salva – salva il singolo ma, assieme a  lui, salva il mondo – è libertà di rinunciare alla potenza, di decentrarsi, di compiere una sorta di rivoluzione copernicana sul proprio io, riconoscendo pari dignità e valore a tutto ciò che è altro da noi («tutti si credono centro...»), ma riconoscendo anche che il centro del mondo non è in questo mondo, ovvero che Dio è trascendente, il suo punto di osservazione sulle cose non può coincidere con il nostro, perciò ci sfugge, non possiamo afferrarlo (Il Dio apofatico di cui si è detto).
Ma che cosa allora è possibile? Lo dice nelle ultime righe di questa citazione che abbiamo riportato: accettare, da un lato, che il mondo sia governato dalla necessità – ovvero da leggi autonome, su cui non solo noi, ma persino Dio non può intervenire, in quanto ha concesso alla natura la stessa autonomia che ha dato all'uomo – dall'altro lato, che l'unica prerogativa che ci fa essere uomini non è l'esercizio della forza, ma quello della libertà della coscienza. Consentire a questa visione del rapporto Dio-uomo-mondo non è una decisione razionale, è un atto d'amore, un consenso (parola molto importante nel lessico weiliano), un dire il proprio sì a questa rivoluzione copernicana, il cui esito, mai del tutto acquisito nella condizione umana, è la rinuncia piena all'io, quella che Simone Weil chiama decreazione.  Non si tratta di singoli atti, ma di un modo d'essere, plasmato sull’imitazione del Dio creatore che, nell'atto stesso in cui ha dato vita all'universo, si è ritirato, lasciando spazio alle cose, alla natura, all'agire umano, mano a mano che questo, nel processo evolutivo, ha cominciato a esprimersi secondo libertà. Ma è imitazione anche del Dio incarnato in Cristo che, in tutto il suo percorso di vita umana, soprattutto attraverso la crocifissione, ha vissuto in modo perfetto, a noi impossibile, lo svuotamento di sé; la rinuncia all'io, alla centralità, alla forza.
Decentrarsi da sé è dare un nuovo orientamento, radicalmente diverso, al proprio sguardo sulle cose. Non v’è altro modo per liberarsi, per gradi, dalle categorie mentali che ci ingabbiano: ideologie, credenze, dogmatismi, nazionalismi, familismi, egocentrismi ed altro ancora. Più ne diventiamo capaci, più ci avviciniamo, quasi fino a farlo nostro, al punto di vista globale, che è fuori del mondo, ed è (o si immagina sia) quello di Dio. Punto di vista destinato comunque a restarci ignoto, velato, in ombra, almeno fin tanto che saremo in vita, se è vero, come dice san Paolo, che l'uomo, nella vita terrena, conosce il mondo solo «per speculum et in ænigmate».
Ma qualcosa di Dio, a quelli che lo amano, si rivela non in via diretta, ma attraverso i metaxy, ossia esperienze di vita mediatrici tra l'umano e il divino, che agiscono come ponti, come passerelle. In cosa consistono? Anzi tutto la bellezza, sia naturale che artistica, che è il modo più trasparente in cui Dio ci si rivela, e accanto ad essa la compassione, la carità verso il prossimo, ma anche la sventura, a patto che preservi nell'anima la capacità d'amare, l'eros, quando sa essere sete di conoscenza, la giustizia, quando è capacità d'ascolto verso i più deboli, e la scienza stessa, quando non è al servizio esclusivo della tecnica ma, secondo il modello greco, ormai estraneo alla modernità, sa porsi come contemplazione dell'ordine del mondo: nella materia, nell'energia, in quella tessitura nascosta della realtà che sfugge ai sensi.
Sono queste le possibili vie di salvezza per l’uomo? Simone Weil le vede con una bellissima immagine come corde che, dall’alto, sono lanciate al naufrago: egli deve saperle afferrare e, grazie ad esse, costruire un nuovo equilibrio di forze tra il mare in tempesta e i propri muscoli che lottano per resistere. L’esito della battaglia non è mai certo: c’è un gioco di forze, divine e umane, complesso, misterioso, dietro ogni processo di salvezza. Nessuna esperienza è equiparabile all’altra, tuttavia le corde in ogni caso servono, sono indispensabili.  
Si capisce da qui come sia difficile per Simone Weil accettare una interpretazione della morte di croce del Cristo concepita in termini sacrificali: del capro espiatorio che, una volta per tutte nella storia, ha dato se stesso, la sua vita, in espiazione vicaria dei nostri peccati; li ha portati su di sé e ce ne ha liberati. Come spiegare allora tutto il male che, prima e dopo d’allora, ha continuato a dilagare nel mondo, trovando di certo un ostacolo nella bontà di un resto di giusti, sempre sussistente, ma non è stato né arginato né tanto meno sconfitto.
Il discorso è lo stesso anche per la Resurrezione che, a Simone Weil, pone più problemi di quanti non ne risolva, nella misura in cui la si legge come trionfo, definitivo, sul male e sulla morte stessa. Non a caso, come leggiamo nei Vangeli, Cristo riappare ai suoi, parla con loro, mangia con loro, viene da loro percepito come presenza reale, benché dapprima essi stentino a riconoscerlo, ma poi si distacca, deve allontanarsi, deve andar via, ascendere al Padre, perché lo Spirito discenda in mezzo a loro. Per dirla con la bella metafora di Simone Weil, l’uomo, a sua volta, deve imparare a lottare, nelle tempeste della vita, con le sue bracciate, deve acquisire la tecnica del movimento autonomo, sia pure grazie alle corde tese al cielo: i metaxy  altro non sono che doni dello Spirito (giustizia, carità, amore, bellezza…) e nutrimento per l’uomo, un nutrimento che, per Simone Weil, opera con la potenza spirituale dei sacramenti.

 

Nota
Con questo scritto non abbiamo la pretesa di dar conto, in modo esauriente, di tutti i risvolti della concezione spirituale e dell’esperienza di fede di Simone Weil. Molte questioni, importanti, non le abbiamo neppure sfiorate: il rapporto problematico con l’Ebraismo, la scelta di non appartenenza alla chiesa cattolica, il significato che ha per lei il suo “restare sulla soglia”. E poi anche la concezione di Dio, al tempo stesso personale e impersonale, il problema del rapporto tra le diverse tradizioni religiose, e molto altro. A chi voglia approfondire potremo fornire altro materiale: suggerimenti bibliografici per la lettura diretta di alcuni testi essenziali e/o copie di nostri scritti di commento e riflessione sui diversi aspetti dell’esperienza di vita e del pensiero di Simone Weil.