di Maria Antonietta Vito
Mi sembra onesto partire dall’ammissione della mia difficoltà di credere, se per credere s’intende: accettare, nella sua pienezza, la professione di fede del Credo.
Ma non è dei dubbi d’ordine teologico e dogmatico che intendo parlare.
Vorrei piuttosto dire in modo chiaro come nel mio approccio ai temi religiosi, sempre segnato dal dubbio, al punto che non è impreciso definirlo agnostico, la riflessione sulla fede finisca comunque per infilarsi, quasi mio malgrado, nei miei pensieri e nella mia vita quotidiana.
Perciò in queste righe resto volutamente ancorata all’ambito personale e tralascio due questioni di per sé importanti: il mio rapporto (critico, problematico, pressoché assente) con la Chiesa cattolica, e accanto a questo, le ragioni della difficoltà ad aderire a un impianto dottrinario di cui non ignoro la complessità, la ricchezza teologica, ma sul quale mi sembra necessaria una riflessione in profondità, non per “modernizzarlo”- renderlo conforme allo spirito dei tempi - ma per ripensarlo alla luce del Vangelo e far sì che sia più comprensibile a donne e uomini che vivono la crisi di senso che è al cuore della modernità e il rischio d’essere travolti dall’onda lunga di un nichilismo di massa del tutto indifferente non solo alle domande radicali ma al presupposto stesso che abbia senso cercare la verità.
Tanto per cominciare, cosa posso testimoniare sull’embrione di fede che abita dentro di me e avverto incapace di trasformarsi in qualcosa di più di un embrione? Fede in chi, in che cosa?
Forse è il caso di partire dalla radice. Partire dal Gesù storico: non il Cristo Risorto, non l’Eletto, non il Messia, non il Figlio di Dio… Ma, molto semplicemente, il Gesù storico, quello su cui sappiamo, al tempo stesso, poco e tanto. Sappiamo quel che ci raccontano i Vangeli, che, come è noto, non sono né vanno letti come opere storiografiche. Nei casi migliori, si può parlare di testimonianze. In realtà, per forza di cose, erano già interpretazioni, con tutta l’arbitrarietà connessa ai processi interpretativi; nascevano come strumenti di persuasione, coesione, proselitismo. Accenno solo a queste considerazioni: come sapete, si tratta d’un ambito troppo complesso per essere liquidato in poche righe. Non ho intenzione di farlo.
Sta di fatto che, se a una figura, a un chi, sentivo da giovane e sento tuttora la spinta a rapportarmi, questo non è tanto il Cristo di quella tradizione che da Paolo giunge fino a noi, quanto il Gesù dei Vangeli, nella pluralità di sfaccettature e angolazioni con cui ci si presenta nei Sinottici e in Giovanni.
Ho fede in lui? Sì, se quando si dice fede s’intende: apertura, ascolto, fiducia, adesione ai significati che colgo nella sua parola, e poi interrogazione sulla mia vita, disponibilità a lasciarmi ispirare dalla figura e dal messaggio di Gesù, nei limiti in cui riesco a comprenderne qualcosa attraverso i racconti evangelici.
Seconda domanda che pongo a me stessa: qual è il nucleo che mi appare irrinunciabile nell’insieme del messaggio evangelico?
Questo nucleo, per me, si sintetizza nell’invito a porsi alla sequela di un rabbi, un maestro itinerante, che chiede a ciascuno qualcosa di assolutamente radicale: una piena conversione di vita, un sovvertimento totale rispetto ai criteri e ai valori da cui questo mondo si lascia guidare e su cui l’uomo comune, lo sappia o no, plasma i propri comportamenti.
L’invito che Gesù ci fa a rinnegare noi stessi, a essere perfetti come il Padre nostro è perfetto sollecita a questa disposizione interiore, che deve poi tradursi in stile di vita, prassi, azione concreta. Questo vuol dire rivoltare come un calzino la propria vita: riedificare su fondamenta diverse, radicalmente diverse, la relazione di ciascuno con se stesso, con i propri simili, con le cose, materiali e spirituali, con l’ambiente, col mistero della vita e della morte.
Una proposta che, solo a intuirne la portata, dovrebbe paralizzare, dovrebbe far tremare le vene e i polsi a chiunque ha orecchie per intendere. Siamo davanti a quanto di più lontano si possa immaginare da quel messaggio quietistico, annacquato, addomesticato che viene spesso propinato dagli altari e finisce per fare non da veicolo, ma da schermo alle parole evangeliche.
Se così non fosse, del resto, il Cattolicesimo avrebbe da tempo cessato d’essere una realtà di massa, cosa che sta comunque avvenendo. Alcuni direbbero che, se fosse stato o fosse ciò che ho cercato di enunciare, già da tempo, da molto tempo, si sarebbe trasformato in una gnosi individuale, uno di quei tanti percorsi d’iniziazione al mistero che sempre le grandi civiltà hanno offerto al singolo e alle comunità per orientarsi nel buio fitto che circonda l’inconoscibile.
Questa obiezione, in sé, ha una parte di verità. Del resto, proprio perché diffido d’ogni dogmatismo, sono convinta che qualsiasi frammento di verità la nostra mente riesca a cogliere è sempre imbevuto di contraddizioni. E le contraddizioni sono ostacoli reali: vanno accettate e contemplate a lungo, senza pretesa di scioglierle con discorsi addomesticati. Me lo ha insegnato Simone Weil.
Una cosa sento di poter dire: se solo ci lasciassimo sfiorare dalla radicalità della proposta di vita che Gesù ci fa, la risposta di quasi tutti noi sarebbe la stessa del “giovane ricco” della parabola di Marco (10,17-27) e di Luca (18,18-27). Con tristezza, magari con estrema tristezza, volgeremmo le spalle al Maestro, tornando alle nostre occupazioni di sempre. Può darsi che io sia pessimista sulla natura umana, può darsi che mi sbagli, anzi, lo spero. Mi sembra però chiaro che l’eternità che Gesù propone al giovane ricco in cambio di questa conversione altro non sia che la vita stessa, quella sua vita, in quello spazio e quel tempo, ma trasfigurata, resa nuova, resa diversa, dall’energia liberatrice del contatto quotidiano col bene. Solo in questo senso riesco a intendere l’annuncio che il Regno di Dio è già qui, in mezzo a noi (Luca 17,20 – 21).
Che quel Regno non sia miraggio utopico, che si dia a chi lo accoglie come realtà vivente - incompleta, incompiuta, ma viva e attuale - questa è la promessa che è stata fatta. Ma questo è anche l’azzardo, il compito affidato alle nostre mani. Mani fragili, maldestre. La libertà più totale, dunque, impone il più prezzo più alto da pagare: il rischio di lasciare libero corso al male, di vederlo prosperare e trionfare.
Può essere definitivo questo trionfo del male oppure ha un limite? Da chi viene questo limite, dall’uomo? Da un intervento attivo di Dio nella storia? Dalla natura stessa? Domande senza risposta. Ma che cos’è il pensiero religioso, che cos’è la filosofia stessa, se queste domande vengono eluse? E che cos’altro sappiamo riguardo a quel Regno che tanto spazio ha nei Vangeli?
Nulla, se non ciò che la storia e il presente suggeriscono: sappiamo che la sua incarnazione terrena è sempre imperfetta, spesso resta solo potenziale, il più delle volte abortisce, nei casi migliori non è che seme, dotato però di grande forza generatrice, così da riaccendere la speranza, cui però spesso tiene dietro la delusione. Altalena perenne di sentimenti e di pensieri. Su questa altalena ci siamo noi, ci sono le nostre vite incompiute. Inevitabilmente c’è anche la nostra fede.
Ma su quale sarà l’esito finale di questo ondeggiare continuo scelgo d’attenermi al silenzio, accetto il vuoto, accetto il mio non sapere. Mi sembra più onesto, più dignitoso del rifugiarmi in certezze consolatorie che, su di me, non hanno forza persuasiva sufficiente.
Lo stesso atteggiamento sento di dover avere - non per dovere imposto dall’esterno, e neppure dalla coscienza, ma per un mio sentire, un sentire in profondità, cui non desidero sottrarmi - verso la grande questione della morte e della fede o meno in una qualche forma di vita ultraterrena. Tema oggi rimosso dal senso comune, almeno fintanto che l’individuo non ne è investito in modo diretto, attraverso la morte dei propri cari. Tema su cui vedo anche la Chiesa manifestare un certo imbarazzo, come se dubitasse anche lei delle antiche risposte, ma avesse un comprensibile timore ad avventurarsi di nuovo - oggi, nel mondo del pluralismo delle credenze e del disincanto - su un terreno di riflessione così accidentato, e tuttavia così essenziale, se non si vuol ridurre la fede a una precettistica etica ma conservarle il suo ruolo, se non d’illuminazione totale, almeno d’orientamento nella meditazione sulle grandi domande escatologiche. Drammatico questo silenzio, o questo balbettio, o questa sbrigativa chiacchiera consolatoria sulla morte in cui anche la Chiesa è trascinata.
Su questi temi mi sento messa in gioco più che mai sul piano personale e credo necessario dirne qualcosa. Chi mi conosce, sa quale tremendo lutto io stia attraversando e patendo in questo momento della vita. Avere una fede d’acciaio, forte, senza smagliature, non assediata né insidiata dal dubbio, è poco se dico che mi farebbe un gran bene. Mi aiuterebbe a leggere un evento assurdo, inaccettabile, come la morte di una creatura di 13 anni, la mia nipotina - e con lei altre, purtroppo tante altre - non come strappo violento, ingiusto, assurdo, ma come transito da questo livello di vita a un altro, più elevato, più ricco di senso, più luminoso. Atto di fede che, senza eliminare il dolore, in qualche modo giustificherebbe la perdita, trasfigurandola.
Invece, proprio in questa dolorosissima circostanza ho toccato con mano, scottandomi, la mia impotenza (qualcuno potrebbe dire, magari a ragione, la mia resistenza) a credere nel senso di abbandonarmi a quanto la religione nella quale sono stata educata mi promette, non come vaga possibilità, ma come orizzonte di senso certo, entro cui tutte le contraddizioni saranno chiarite, le ferite sanate, le lacrime asciugate. Non riesco a far mia questa fede intesa come certezza interiore - non dei sensi, che sono muti, non della ragione, che è presbite, non vede sulle grosse distanze - ma di quella forma di conoscenza che solo la fede dà a chi è disposto a pagare il prezzo d’un radicale abbandono. Proprio di questo tipo di fede io sperimento l’assenza. Al suo posto non resta però il nulla. C’è la speranza, una speranza che in me non è `«certezza di cose sperate», altrimenti sarebbe quella fede che mi manca. È una speranza che si nutre della consapevolezza dell’ignoranza, mia e di tutti, su ciò che va oltre l’umano. Ma chi non sa, non può escludere nulla. L’atto di negare, nella sua assolutezza, corrisponde alla pretesa di sapere. L’angoscia del nulla, nella misura in cui si erige a certezza metafisica, diventa dogmatica tanto quanto la certezza opposta: che vi sia qualcosa, quella determinata cosa. A mio giudizio è così, ma cerco di spiegarlo meglio. Se dico speranza, penso a due cose: a) come appena detto, sono aperta all’ipotesi che vi sia una forma di vita ultraterrena, alla quale preferisco non attribuire connotazioni che si leghino a visioni e immagini particolari. Preferisco accettare di non sapere, limitarmi a desiderare, e nutrire questo desiderio con la forza dell’amore; b) c’è poi una dimensione più ristretta della speranza, tutta dentro un orizzonte umano, su cui però ho potere di verifica giorno per giorno: la speranza di non cessare d’amare la vita, la bellezza, gli altri, gli ultimi, i sofferenti… La speranza che una parte del mio dolore possa convertirsi in un rafforzamento dell’attenzione alla sofferenza altrui.
È virtù teologale questa speranza? O è un valore esclusivamente umano, frutto d’un umanesimo responsabile sia dei limiti che delle potenzialità dell’umano?
Anche su questo mi fermo, non so rispondere, sento che qualsiasi risposta del tipo V/F, oppure aut-aut, sarebbe riduttiva. Credo che proprio di fronte alle tragedie della vita noi tocchiamo con mano quanto poco alla fine conti il portare dentro di sé un bagaglio di presunte certezze, di risposte prefabbricate, e quanto invece sia più giusto e anche più bello esporsi al soffio dello spirito (di proposito uso la minuscola) e lasciarsi trasformare. Non ho altro da dire, grazie.