di Carlo Bolpin
Il giovane pastore Dietrich Bonhoeffer (Breslavia 1906 - 1945 impiccato nel campo di Flossenbürg) è un convinto nazionalista a favore della teologia della guerra giusta per la difesa del proprio popolo. Successivamente afferma un pacifismo radicale in base a solide motivazioni evangeliche ed etiche, in conseguenza alla meditazione biblica, in particolare, sul Discorso della montagna. Considera ovvio quel pacifismo cristiano, che aveva combattuto animosamente, e giunge a una nonviolenza radicale, che nega la necessità di armarsi in nome della sicurezza.
Bonhoeffer, come segretario per i giovani della World Alliance (Unione mondiale per l’amicizia fra le Chiese), alla conferenza sulla pace che si tiene il 26 luglio 1932 a Ciernohorskè Kupele, in Cecoslovacchia, condanna la guerra affermando con decisione che il cristiano non può prestare servizio militare.
Dopo l’avvento di Hitler, Bonhoeffer prende posizione, in numerosi interventi pubblici, contro l’odio razziale e per la pace, ed è tra i pochi decisi a contrastare il progetto di Hitler di riunificazione di tutte le Chiese protestanti territoriali nell’unica Chiesa tedesca del Reich. Si diffonde sempre più il gruppo che aderisce a questa linea che afferma che solo quella ariana è la vera Chiesa e che la superiorità della razza tedesca è voluta direttamente da Dio, ma alle elezioni ecclesiali del 23 luglio 1933 i “cristiano-tedeschi” ottengono una grande maggioranza.
Nell’Assise ecumenica in Danimarca, Bonhoeffer, il 28 agosto1934, propone drammaticamente un grande Concilio ecumenico per la pace, per impegnare tutti i cristiani a rifiutare guerre e a non combattersi gli uni contro gli altri. È una precisa denuncia della politica militarista nazista.
L’appello non viene compreso e la proposta fallisce. Per le sue posizioni rimane isolato anche nella Chiesa protestante, di cui è profondamente deluso.
Al termine del Sinodo, tenuto nel maggio 1934 nella cittadina di Barmen, al quale partecipano rappresentanti di tutte le comunità evangeliche, sono pubblicati i documenti, preparati da Karl Barth. In questa “Dichiarazione di Barmen” si afferma con forza che solo a Gesù Cristo si devono obbedienza e fedeltà e che solo dalla Sacra Scrittura si ricavano le leggi da seguire, non dallo Stato, dall’appartenenza a una patria e a una razza.
Per Bonhoeffer, inoltre, la centralità del principio fondamentale del protestantesimo (“solo Cristo” e “sola Scrittura”) non significa sottrarsi alla concreta dimensione storica e alle proprie responsabilità.
Sulla base della “Dichiarazione di Barmen” un gruppo di pastori e di laici si costituisce come “Chiesa confessante” (Bekennende Kirche), a cui aderisce una piccola percentuale dei protestanti tedeschi, che opera sul piano spirituale e formativo.
Bonhoeffer si dedica agli studi, alla vita comunitaria e a un Seminario-comunità per la formazione di futuri pastori. Alla fine del settembre 1939 la Gestapo chiuderà questa esperienza durata solo due anni e mezzo.
Lo scontro radicale, interno al protestantesimo e con il nazismo, pone a Bonhoeffer l’esigenza di ripensare l’essenza stessa del cristianesimo e del ruolo della Chiesa nelle tragedie della storia e in rapporto con le realtà secolari. È l’avvio delle riflessioni, che vengono continuate anche in carcere, sul cristiano in un “mondo adulto” che può fare a meno di Dio, nel cui nome non si può stare dalla parte dei carnefici, della violenza, delle guerre. Occorrono nuove immagini di Dio non più “tappabuchi”, il “deus ex machina” a cui si chiede di risolvere tutti i nostri problemi, il Dio onnipotente, che legittima i potenti della terra. Dio è quello che Gesù fa vedere, incarnato nella storia umana.
Non sono gli atti religiosi verso questo Dio che definiscono il cristiano, ma la condivisione della sofferenza di Dio nel mondo, così come ha fatto Gesù Cristo, che è “l’essere per gli altri”, ha preso su di sé i drammi della storia schierandosi dalla parte delle vittime. Forte è la critica alla Chiesa che dispensa la “grazia a buon mercato” alla quale Bonhoeffer contrappone la “grazia a caro prezzo”. Non si ricorre a Dio per giustificare proprie scelte, di cui dobbiamo assumere la responsabilità in prima persona anche quando si è di fronte ad alternative estreme, incompatibili senza alcuna possibilità di ricomposizione.
Il cristiano si trova davanti alla domanda lacerante se nel mondo ci sono situazioni in cui la violenza, che rimane ingiusta e contraria al Vangelo, è inevitabile. Il Vangelo non può essere l’appello a principi astratti incapaci di incarnarsi nella concretezza. Neppure, però, l’attesa della venuta di Cristo in un momento indefinito nel tempo futuro può portare a legittimare guerre che così diventano “giuste” perché “necessarie” qui e ora. Bonhoeffer è consapevole di questa lacerazione e la assume responsabilmente, in prima persona decide di agire con il rischio di morire per altri, di non stare a guardare che altri muoiano al posto suo, per la difesa della sua libertà.
Prende atto del fallimento del tentativo di coinvolgimento delle Chiese, che anzi operano in favore di Hitler, per denunciare e fermare il nazismo, non abbandona la scelta nonviolenta, ma decide di aderire alla cospirazione per uccidere il tiranno. La sua è quindi la scelta personale di esercitare un singolo atto di violenza, rischiando la morte in prima persona.
Forte era il suo auspicio di azione collettiva: se tutti i cristiani, se tutte le Chiese (non solo le protestanti) avessero fatto obiezione di coscienza all’uso delle armi, quali effetti ci sarebbero stati e la storia sarebbe andata diversamente?
Inascoltato, decide, quindi, per una azione personale, presa secondo la propria coscienza.
Il punto di riferimento rimane per lui il Vangelo di Cristo, incarnato nelle contraddizioni tragiche della storia, come risulta evidente dalla sua morte in croce.
Rimane per Bonhoeffer la contraddizione tra la nonviolenza come sequela di Gesù e la condizione tragica della realtà storica, in cui i principi non sono componibili.
Significativo è che non elabori alcuna teoria della guerra giusta e nemmeno formuli dottrine per giustificare la sua scelta come valida oggettivamente per tutti, con teorie e con ricorso a valori ideali e a criteri universali. La logica è quella dell’incarnazione vissuta consapevolmente nelle situazioni in cui è dato vivere. Bene e male non si pongono mai come due principi astratti, tra cui va fatta la scelta, che invece è situata sempre nella concretezza di una situazione tragica perché bene e male coesistono e la scelta da che parte stare non è “pura” e non è deducibile come applicazione di norme elaborate in dottrine astratte dalla vita reale.
Inoltre, Bonhoeffer riconosce che la causa giusta è quella del “nemico” anziché quella del suo popolo e quindi soffre un ulteriore dramma interiore come tedesco e come fedele di una chiesa protestante, che teorizza l’obbedienza allo Stato e alle sue leggi, da lui giudicate in contrasto radicale con il Vangelo.
Per comprendere il suo dramma e la sua “conversione”, significativo è quanto scriveva nel febbraio del ’29: “Quando in guerra l’amore per il mio popolo e l’amore per il nemico si escludono l’un l’altro, sceglierò l’amore per il mio popolo […], ma l’amore per il mio popolo santificherà l’omicidio e la guerra”.
Bonhoeffer nel Natale del 1942 esprime così il suo tormento: “Per chi è responsabile la domanda ultima non è: come me la cavo eroicamente in questo affare? ma: quale potrà essere la vita della generazione che viene? Solo da questa domanda, storicamente responsabile, possono nascere soluzioni feconde, anche se provvisoriamente molto mortificanti. In una parola: è molto più facile affrontare una questione mantenendosi sul piano dei principi che in atteggiamento di concreta responsabilità”.
L’assunzione di responsabilità per il bene oggi delle vittime di tutte le parti è la “porta stretta” del Vangelo che attraversa a “caro prezzo” rischiando la propria la vita e prendendo su di sé la colpa.
Un’etica della responsabilità guarda le vittime, le relazioni concrete tra persone e non la purezza della “giusta causa“ e dei valori, siano la patria e la libertà oppure la religione, e quindi comporta l’assunzione di colpe. Infatti, eliminare il tiranno Hitler non è il fine che giustifica il mezzo, la sua uccisione. Chi compie questa azione violenta rimane colpevole, prende liberamente su di sé la colpa, di cui risponde pagandone le conseguenze: è “costretto” a questa libertà e a rimettersi totalmente alla grazia. Non può fare altrimenti che donare sé stesso e affidarsi unicamente al giudizio di Dio. Gesù, morto per la nostra salvezza, che prende su di sé tutta l’umanità con i suoi peccati, è il riferimento che spiega il senso dell’azione umana responsabile, sempre decisa “per conto di altri” fino al dono totale della propria vita “al posto di altri”.
In nome della sua scelta, Bonhoeffer non si erge a giudice e l’azione violenta non diventa giusta e santa. Nessuna santità in una azione che è secolare e perciò impura, imperfetta, inquinata dalla violenza, sottoposta al giudizio della storia e della giustizia umana, ma definitivamente a quella di Dio, alla relazione personale tra chi opera e Dio