Sono verticale, recita il titolo di una poesia di Sylvia Plath che Marta Bonaventura sapientemente commenta. L’incipit recita: Ma preferirei essere orizzontale, perché solo allora, prosegue, distesa, dormiente, c’è colloquio tra il cielo e me; solo quando sarò distesa per sempre, morta, solo allora gli alberi mi toccheranno e i fiori avranno tempo per me. Prima, la mente la rende verticale, la sbalza fuori dal mondo al quale così non può aver parte. Non c’è in queste righe, in questa confessione di sventura, alcun Padre nei cieli, verso il quale “non possiamo fare alcun passo”, perché “non si cammina in verticale”, ma a cui si può rivolgere lo sguardo, perché “sta a lui cercarci” – in spe.
Lo scriveva Simone Weil – e l’accostamento invita a pensare.

Paolo Bettiolo

La fredda sincerità della natura in Sylvia Plath
di Marta Bonaventura

Nelle prime ore di lunedì 11 febbraio Sylvia si suicida mettendo la testa nel forno di casa e aprendo il gas, non prima di aver posto accanto ai letti dei bambini del pane e del latte e di aver spalancato la finestra della loro camera1.

Sono queste, pressappoco, le parole con le quali Sylvia Plath viene ricordata oggi.
Nata a Boston nel 1932, è morta suicida a Londra nel 1963. Ma lei non fu soltanto un groviglio di tristezza e un essere umano segnato da relazioni personali gravose. Patologizzare la sua vita, la sua opera e la sua morte è irrispettosamente riduttivo. Tutto del suo essere, compresa la depressione, è stato piuttosto l’espressione di quella che, usando le parole di Maurice Merleau-Ponty, possiamo definire “una possibilità generale dell’esistenza umana”2. La malattia non fu un accidente che le capitò, privandola per sempre della possibilità di essere la vera Sylvia. Ogni sfaccettatura di Plath è compiuta e perfetta in sé stessa ed esprime il suo specifico e irripetibile modo di stare al e con il mondo. 
Così, anche nel rapporto con la natura emerge uno degli aspetti fondamentali del suo pensiero: l’assunto metafisico romantico che caratterizzò l’inquietudine e il suo senso di inadeguatezza perenne. Il sentimento che l’Io, con la sua coscienza, sia inevitabilmente fuori posto nell’universo. La natura è per lei il luogo della realtà irraggiungibile e per questo è oggetto di desiderio ma anche di odio. I tulipani, guardati da un letto di ospedale, non sono balsamo per le ferite, ma sale che brucia come testimonianza di finitezza. Nella bellissima poesia intitolata proprio Tulipani, Sylvia scrisse:

Sono troppo rossi anzitutto, questi tulipani, mi fanno male.
Li sentivo respirare già attraverso la carta, un respiro
sommesso, attraverso le fasce bianche, come un neonato spaventoso.
Il loro rosso parla alla mia ferita, vi corrisponde.
Sono subdoli: sembrano galleggiare, e invece sono un peso,
mi agitano con le loro lingue improvvise e il loro colore,
dodici rossi piombi intorno al collo.
Nessuno mi osservava prima, ora sono osservata3.

E ancora, nella più oscura La luna e il tasso, leggiamo che

Il tasso indica l’alto. Ha una forma gotica.
Gli occhi lo seguono e trovano la luna.
La luna è mia madre. Non è dolce come Maria.
Le sue vesti azzurre sprigionano pipistrelli e gufi.
Come vorrei credere nella tenerezza –
Il volto dell’effigie, addolcito dalle candele,
che china, proprio su di me, gli occhi soavi.
Sono caduta lontano. Le nuvole fioriscono
azzurre e mistiche sul volto delle stelle.
Dentro la chiesa, i santi sono tutti azzurri,
fluttuanti su piedi delicati sopra i banchi freddi,
le mani e i volti rigidi di santità.
La luna non vede nulla di tutto questo. È calva e forsennata.
E il messaggio del tasso è il nero - il nero e il silenzio4.

Si tratta della percezione profonda di uno scarto netto tra l’essere umano e la natura, tra l’Io e il mondo, che segna l’agonia dell’umanità, costantemente tesa al raggiungimento di un incontro sempre mancato con la realtà. Joyce Carol Oates disse a proposito che “la coscienza umana è, per Plath, sempre un’intrusa nell’universo naturale” e, per questo motivo, “la poesia, derivando dalla mente dell’uomo […] è in qualche modo attività stonata, fuori luogo, che deve farsi perdonare”5. Nei Diari, ad esempio, vediamo emergere questa lucida consapevolezza nella descrizione di una giornata al mare, durante la quale l’autrice sente nascere con il paesaggio un legame profondo, inaccessibile, però, al pensiero concettuale. Plath scrive:

Sdraiata sulla pancia su un tiepido scoglio piatto, lasciavo penzolare un braccio e con la mano accarezzavo i contorni arrotondati sulla pietra scaldata dal sole, seguendone le lisce adulazioni. Lo scoglio era così caldo, emanava un tepore così intenso e confortevole che mi sembrava un corpo umano. Bruciando attraverso la stoffa del costume da bagno, quel grande calore mi si irradiava per tutto il corpo e i seni mi dolevano contro la dura pietra piatta. Soffiava un vento salmastro e fradicio che mi inumidiva i capelli e attraverso un folto ciuffo lucente intravedevo l'azzurro scintillio dell'oceano. Il sole penetrava in ogni poro, saziava ogni mia querula fibra in una grande, incandescente pace dorata. Allungandomi sullo scoglio, il capo teso, poi rilassato sull'altare, mi sentivo piacevolmente violentata dal sole, colma del calore proveniente dal gigantesco, impersonale Dio della natura. Caldo e perverso era il corpo del mio amore sotto di me e la sensazione della sua carne scolpita era incomparabile: non morbida, non malleabile, non bagnata di sudore, ma arida dura, liscia, pulita e incontaminata. Superba, bianca come un osso, ero stata detersa dal mare, mondata, battezzata, purificata, lavata a secco e tonificata dal sole. Come un'alga fragile, affilata, odiosissima – come la pietra, arrotondata, ricurva, ovale, nitida – come il vento, frizzante, salmastro – così era il corpo del mio amore. Un sacrificio orgiastico sull'altare di roccia e di sole e io mi sono levata luminosa dopo secoli d'amore, tersa è appagata dal fuoco struggente del suo desiderio fortuito e senza tempo. […] Mi pervade il sereno senso della lenta, graduale inesorabilità dei mutamenti della crosta terrestre. Un amore struggente, non per un Dio ma per la nitida, assoluta sensazione che le pietre senza nome trovino una definizione passeggera attraverso la coscienza dell'essere che le osserva. Insieme al sole che arroventa gli scogli e la carne, e al vento che scompiglia l'erba e i capelli, c'è la consapevolezza che le forze cieche immense inconsce impersonali e neutrali resisteranno e che il fragile organismo miracolosamente tessuto che le interpreta e le investe di significato si muoverà per un poco, poi si indebolirà, verrà meno e infine si decomporrà sotto l'anonima terra, senza più voce, senza più volto, senza più identità6.

Ma l’agonia di un tale pensiero, pur spingendo anche verso la ricerca di una perfezione introvabile, ha come esito fondamentale il desiderio di annichilimento. Una percezione così limpida della propria miseria non può che portare, riprendendo ancora le parole di Oates, “al silenzio; nella vita, al suicidio”7. Ed è questo il sentimento che muove la poesia Sono verticale, nella quale la poetessa esprime il desiderio di un riposo definitivo dagli inutili sforzi umani di ergersi al di sopra della propria piccolezza. Sono verticale, dice,

Ma preferirei essere orizzontale.
Non sono un albero con la radice nel suolo
che succhia minerali e amore materno
per poter brillare di foglie ogni marzo,
e nemmeno sono la bella di un'aiola
che attira la sua parte di Ooh, dipinta di colori stupendi,
ignara di dover presto sfiorire.
In confronto a me, un albero è immortale
e la corolla di un fiore non alta, ma più sorprendente,
e a me manca la longevità dell’uno e l’audacia dell’altra.
Questa notte, sotto l’infinitesima luce delle stelle,
alberi e fiori vanno spargendo i loro freschi profumi.
Cammino in mezzo a loro, ma nessuno mi nota.
A volte penso che è quando dormo
che assomiglio loro più perfettamente –
i pensieri offuscati.
L’essere distesa mi è più naturale.
Allora c’è aperto colloquio tra il cielo e me
e sarò utile quando sarò distesa per sempre:
forse allora gli alberi mi toccheranno, e i fiori avranno tempo per me8.



Note

1) S. Plath, I capolavori di Sylvia Plath, a cura di Anna Ravano, Milano, Mondadori, 2004.
2) M. Merleau-Ponty, Il dubbio di Cezanne, tr. it. di Paolo Caruso, Milano, Il Saggiatore, 2016.
3) S. Plath, I capolavori di Sylvia Plath, cit.
4) Ivi.
5) Ivi.   
6) S. Plath, Diari, a cura di F. McCullough e T. Hughes, tr. it. di Simona Fefè, Milano, Adelphi, 1998.
7) S. Plath, I capolavori di Sylvia Plath, cit.
8) Ivi.