Nelle pagine che Elisa Marconato ci restituisce e commenta, Anna Maria Ortese narra con dolore e ira il proprio smarrimento nei confronti di un’umanità che nella sua grandezza “milanese” patisce un penoso “ottundimento dei sensi”, un’incapacità di discernere e gradire, così che, pur tutto potendo, “non gusta più che poco o niente”. Un’umanità in sé scissa – ci dice –, che rifiutando la natura rifiuta sé stessa, e ne muore. E se non ne muore, è raggiunta dall’amara invettiva del conte/Cristo: “Impazzerei di gioia, se sapessi che essa” – quella natura che, ne è certo, non vuole essere abbandonata dall’uomo, che si strugge per il figlio che l’abbandona – non ha bisogno di noi”.
Paolo Bettiolo
L’iguana di Anna Maria Ortese. Una figura di confine
di Elisa Marconato
Una bambina sogna un piccolo drago nascosto nell’armadio di casa, lo tocca con una spada e lui svanisce:
"alla fine, ancora anni dopo, guardandomi in un vetro della cucina, fui rassicurata: c’era sì qualcosa di verde e di irto, in me, ma poteva sfuggire, la vera metamorfosi non era che interiormente. Interiormente, ahimé, ormai ero Drago. Per Drago intendo appunto una creatura non formale, dotata di una qualche intelligenza, sì, ma a circuito chiuso – non malvagia, forse neppure un tanto, ma irrimediabilmente diversa"
Il drago, immagine del malinconico e del dolorosamente diverso, non dobbiamo ferirlo o ucciderlo, solo riconoscerlo. Egli ci appartiene. Fu così che la bambina destata dal sogno si scoprì “verde”. Parliamo di Anna Maria Ortese, una scrittrice sola come è sola una pietra o un mucchio d’erba in un giardino, ma anche, diceva di sé, una donna aliena e antipatica, esigente col mondo, e scontenta.
Scontenta di sé e di noi, uomini del nostro tempo che abbiamo già fissato la destinazione delle nostre imminenti, sospirate vacanze e che mai oltrepassiamo un concetto di Natura che vada «al di là del mare che serve d’estate, della montagna utile per l’inverno». Siamo gli uomini avidi, divoratori di paradisi, dei quali leggiamo nell’incipit del romanzo L’iguana, testo in cui mette romanticamente a fuoco la propria etica: nel profondo siam tutti Milanesi.
Come tu sai, Lettore, ogni anno, quando è primavera, i Milanesi partono per il mondo in cerca di terre da comprare. [...]; ma soprattutto corrono in cerca di quelle espressioni ancora rimaste intatte della «natura», di ciò che essi intendono per natura: un misto di libertà e passionalità, con non poca sensualità e una sfumatura di follia, di cui, causa la rigidità della moderna vita a Milano, appaiono assetati. Incontri con gli indigeni, e la cupa nobiltà di questa o quella isola, sono tra le emozioni più ricercate, e se ti viene in mente che emozione sia un traguardo inadeguato alle vaste possibilità del denaro, rifletti sulla stretta corrispondenza tra grandezza economica e indebolimento dei sensi, per cui, al massimo del potere di acquisto, si ha non so che ottundimento, che generale incapacità di discernere, di gradire; e colui che, ormai, potrebbe cibarsi di tutto, non gusta più che poco o niente.
Ecco l’uomo: passa per il mondo vivo – perché, tutto, respira – e vi scorge solo la natura artificiale, oggetto di guadagno e consumo, non ci sono più campagna e animali, sparite le “piccole persone” e le “bestie angelo” (i cardilli, i puma e le iguane che animano il bestiario fantastico dell’autrice). Bisogna essere realisti!
“Sentii parlare di realismo. Che cos’è questo?”
“Dovrebbe essere”, rispose il conte un po' impacciato, “un’arte di illuminare il reale. Purtroppo non si tiene conto che il reale è a più strati , e l’intero Creato, quando si è giunti ad analizzare fin l’ultimo strato, non risulta affatto reale ma pura e profonda immaginazione”
“Questo io l’avevo sospettato, nella mia solitudine!” esclamò il giovanetto “E il risultato di ciò […] può essere un superamento delle antiche concezioni di natura e spirito, immaginario e reale, non è vero?”
“Senza dubbio”.
A reggere il discorso è il protagonista, Daddo, nobile conte dal nobile cuore che si reca nell’isola di Ocaña come Stevenson nell’isola del tesoro: metafora di ciò che è fuori dal circuito routinario e che lui guarda con gli occhi di un bambino, avido solo di libertà e degli aspetti fantastici della realtà contro gli scorni di chi crede che essa sia ciò che si vede. Al pari dell’autrice egli esiste, ma il suo è un “Essere Altrove”, presso la fragilità dell’esistenza, e al tempo stesso presente nel mondo degli oppressi, nella comunione con gli ultimi – le creature maltrattate, dimenticate, mute. Ma su ciò di cui non possono parlare, Ortese può raccontare: con la voce dell’iguana che dà il titolo al suo romanzo – metà rettile e metà donna, fusione simpatetica di mondo animale e femminile – essere di cui il conte innamorato, come in una fiaba, cerca la liberazione.
Quella che egli aveva preso per una vecchia, altri non era che una bestiola verdissima e alta quanto un bambino, dall’apparente aspetto di una lucertola gigante, ma vestita da donna, con una sottanina scura, un corsetto bianco, […] e un grembialetto fatto di vari colori […]. In testa, a nascondere l’ingenuo muso verdebianco, quella servente portava una pezzuola anche scura. Era scalza.
Lo stato di reclusione e asservimento che tanto addolora l’uomo giusto, le condizioni di oppressione e sofferenza che infliggiamo quotidianamente alle diverse specie animali e che sono sotto gli occhi di tutti, sono opera nostra, spiega il conte al “padrone” dell’iguana. Questi è un marchese, proprietario dell’isola, il quale, come tutti gli umani del romanzo ha con la naturalità un rapporto ambiguo, oscillante. Ma non è sempre stato così, c’era un tempo senza separazione:
Là, certi raggi che partono dall’inesauribile azzurro dei suoi occhi, dicono all’Iguanuccia che essa, la Iguanuccia, è assai cara al marchese, è parte dell’anima sua, appartiene ormai all’umana famiglia, e perciò non dovrà più strisciare e morire. L’Iguanuccia, elevata dalla sua condizione animale proprio in ciò che in essa vede, o crede di vedere, il marchese, non è più una Iguanuccia, un triste corpicino verde, ma una gentile e affascinante figliolina dell’uomo.
Col tempo il marchese, paradigma letterario dell’umanità, disorientato dalla sua doppia natura che crede “malvagità”, l’ha estraniata e confinata in una condizione strumentale e servile, precludendole le porte per il paradiso. Il perché ce lo spiega ancora una volta il protagonista:
“Vi è qualcosa che ignoriamo, che non volgiamo sapere, vi è qualcuno, nascosto, che ci impedisce di guardare… Vi è un inganno a danno di persone deboli… Vi è nella nostra educazione, qualche errore di base, che costa strazio a molti, e ciò io intendo colpire”.
Chiamiamolo umanesimo spiccio, mercificante razionalità tecnica, arrogante specismo o morte di Dio… c’è qualcosa in noi, nella nostra cultura, che mistifica la Natura e oltraggia le sue creature. Questo maleficio dobbiamo sciogliere, per tornare a vedere:
“Così, in un certo modo, io ero nel giusto quando immaginavo che la natura non è affatto così impassibile [...] come taluno mostra di credere. No, non è affatto tranquilla la natura; come una madre il cui figlio, spinto da necessità, stia per lasciarla, essa si strugge nelle tenebre… essa è in allarme, e il suo orecchio è incollato su ogni sporgenza dell’aria… E quanti strani rumori, che noi giudichiamo dovuti allo scricchiolio di un ramo, al cadere di una foglia ingenua sul davanzale, altro non sono che il suo raspare alla porta dei nostri chiusi ragionamenti, per non essere abbandonata… dato che sarà difficile per essa vivere senza di noi”. [...]
“Nulla, mio caro, ci obbliga a lasciare questa natura che non è natura ma una parte di noi” egli disse. “Del resto, rallegrati: essa è abbastanza autosufficiente. Dio così volle nel crearla ben sapendo che un giorno o l’altro l’uomo l’avrebbe lasciata, ed essa avrebbe dovuto vivere sola” [...]
“Tu sei buono Daddo!” esclamò il giovanetto, sollevando verso di lui un volto quasi sommerso dalle lacrime e illuminato nondimeno da un radioso sorriso. “Così fosse! In quanto a me, credimi, impazzirei di gioia, se sapessi che essa non ha bisogno di noi”.
Rattristati allora caro giovanetto, ché la Natura – concetto che Ortese tende (magari ingenuamente) a idealizzare come madre benevola e tradita - ha bisogno, perché vi si sentono una tristezza di fondo e la ferita della nostra altera separazione, perché come tutto il mondo respira, così tutto il mondo anche soffre – che mai è la natura se non gli animali, gli alberi, gli stessi uomini quando privi delle difese dell’intelligenza razionale? Di questi componenti dell’unica grande famiglia vivente che soffrono innocenti, noi siamo responsabili.
A illuminare le opere della malinconica Ortese, e mirante a scardinare la pretesa superiorità dell’umanità e colmare il distacco, l’appello eco-etico suona più o meno così: ovunque c’è dolore, occorre una riparazione; ovunque una colpa, una caduta: si gridi “io sono coinvolto, non posso tollerare tutto”, quand’anche si trattasse di qualcosa di infinitamente piccolo come un verme che si dibatte sull’asfalto, quand’anche fosse irrimediabilmente diverso come un rettile vestito di stracci:
Aiutami.
Riconoscimi.
Salutami.
Col mio nome chiamami,
non con quello di serpe.
Voglio risorgere.
Conte di Cristo
non resistere.
Vieni al pozzo,
l’acqua non c’è.
Non ci sono i fiori,
non c’è alcuno.
C’è silenzio.
Il serpe piange.
La rana s’acquatta.
C’è paura.
Porta il lume.
Porta il sole.
Ci hanno giudicati
senza giudizio.
Guarda nel pozzo.
Se ci chiami
rispondiamo.