Per il mio cuore che io abbia più pietà; / che d’ora in poi io viva gentile, indulgente con il mio / triste me stesso; non vivere questa tormentata mente / con questa mente tormentata e che tormenta. // […] // […] gioia cresca // dove Dio sa, quando e fino a quanto Dio sa, il cui sorriso / non è estorto, vedi, ma, inatteso, come le montagne si screziano di cieli illumina un amabile miglio”, un breve, felice tratto di via. Spesso questi versi di G. M. Hopkins mi tornano in mente leggendo S. Weil, i suoi duri pensieri sporti su un abisso di fulgida luce nera, com’è quella di Dio.
Citano gli stoici a volte le sue righe, ma dolente un platonico delle ultime generazioni tardo-antiche leggendo le parole di Epitteto che recitano: “Non cercare che quel che accade accada come vuoi tu.

Devi volere quel che accade così come accade e tutto accadrà al meglio”, scriveva, guardando al suo mondo: “Ad alcuni forse sembrerà dura e impossibile questa precisazione, di “voler che quel che accade accada così come accade”, giacché chi tra quanti hanno buon senso potrebbe volere che accadano le violenze dei tiranni che costringono persino all’empietà e, ancora, la rovina della cultura e della filosofia, di ogni virtù, dell’amicizia e della lealtà reciproca, di tutte le arti e le scienze. […] Queste cose, dunque, e altre del genere che abbondano nella vita che si fa di questi tempi, chi vorrebbe sentirne parlare, non dico poi vederle e averne parte e volere che accadano, a meno che non fosse uomo maligno e odiatore del bene?”.
Difficile rispondere, difficile pensare alle parole di Weil, che forse sono come quelle di Lessing, “il meno compreso tra i grandi dell’età classica tedesca”, come scriveva F. Rosenzweig: “molte delle sue stoccate [affermazioni] erano state intese da lui soltanto come delle finte [delle domande, pressanti domande], ed è unicamente perché la parata della storia universale era ormai deplorevolmente debole che esse l’hanno travolta divenendo in tal modo, contro l’intenzione vera del geniale schermidore, dei fendenti cruenti”.

Paolo Bettiolo

 

La docilità della necessità naturale. Un'antinomia weiliana
di Veronica Antoniazzi

Quando penso alla complessità e alla contraddittorietà del reale non penso a Hegel, ma a Simone Weil. Sebbene entrambi abbiano sottolineato l’importanza del mantenimento e del simultaneo superamento della contraddizione, solo la seconda ha incarnato appieno questo processo di approssimazione alla verità – lo testimoniano sia le sue vicende biografiche sia il suo lascito intellettuale e spirituale. La filosofa francese presenta infatti come dato incontestabile della natura universale il suo assoggettamento alla forza e alla necessità da una parte e il suo legame con un Dio Persona, assolutamente buono e giusto, dall’altra. Come tenere insieme, allora, mostruosità e bellezza, brutalità e mansuetudine, ingiustizia e giustizia? Applicando quello che Weil stessa nei Quaderni chiama significativamente “metodo delle letture sovrapposte”1, il quale ci svela che ciò che si verifica sul piano mondano è veramente comprensibile soltanto tramite un rimando alla trascendenza: 

“L'ordine del mondo è la bellezza del mondo. Muta solo il regime dell'attenzione, a seconda che si cerchi di concepire i rapporti necessari che lo compongono o di contemplarne lo splendore. È una sola e[d] identica cosa che rispetto a Dio è saggezza eterna, rispetto all'universo è ubbidienza perfetta, rispetto al nostro amore è bellezza, rispetto alla nostra intelligenza è equilibrio di rapporti necessari, rispetto alla nostra carne è forza bruta”2.

Per dirla con l’Agostino del libro X delle Confessioni, l’intera “mole dell’universo”, se interrogata con la giusta attenzione e sensibilità, rivela dunque il suo carattere creaturale, di dovere cioè la propria stessa esistenza a Dio3. Agli occhi del credente, la natura porta il Suo sigillo impresso e per questo è costante rimando a un Essere – il vero Essere – che la trascende infinitamente. La natura funge così da tramite per colmare la distanza tra creatura e Creatore. È insomma il primo gradino della scala amoris platonica, la trappola di cui Dio si serve per farci Suoi:

“Poiché è Dio che deve venire a cercare l’uomo, e prendergli l’anima sorprendendo i sensi, ci sono a tal fine solo due mezzi: le bellezze naturali (il cielo, il mare, le stagioni, le pianure, [le] montagne, [i] fiumi, [gli] alberi, [i] fiori, gli spazi – e i bei corpi e bei visi di uomini, di donne e di bambini) – e i segni sensibili ([il] linguaggio, [le] opere d’arte, [le] azioni...) provenienti dalle anime in cui egli è entrato”4

Come si può già intuire da quanto appena prospettato, la bellezza del mondo non deve essere semplicemente oggetto di contemplazione estatica, bensì oggetto d’amore. Bisogna amare l’ordine del mondo, ossia non volere in alcun modo che esso sia differente:

“L’universo è bello come sarebbe bella un'opera d'arte perfetta, se mai ve ne fosse una degna di dirsi tale. Quindi non contiene nulla che costituisca un male o un bene. Non contiene altra finalità al di fuori della bellezza universale in sé. Questa è la verità essenziale che bisogna conoscere: l'universo è assolutamente privo di finalità. Nessun rapporto di finalità può essergli attribuito, se non per menzogna o per errore. Quando si trova una risposta al perché in una poesia quella parola sia in quel posto, ciò significa o che questa poesia non è di prim'ordine, o che il lettore non ha capito alcunché. […] Per una poesia veramente bella l'unica risposta possibile è che la parola è lì dov'è perché quel posto le conveniva. La prova di questa conformità risiede per l'appunto nel fatto che la parola occupa quel posto e che la poesia è bella. La poesia è bella, ovvero il lettore non desidera che sia diversa. Così l'arte imita la bellezza del mondo. La conformità delle cose, degli esseri, degli eventi consiste solo nel fatto che esistono, e che noi non dobbiamo desiderare che non esistano o che siano [stati] diversi. Un simile desiderio è un'empietà nei riguardi della nostra patria universale, una infrazione all'amore stoico per l'universo. Noi siamo fatti in modo tale che questo amore sia effettivamente possibile; ed è per l'appunto a questa possibilità che si dà il nome di bellezza del mondo”5

Emerge qui chiaramente il legame tra dottrina stoica e pensiero weiliano: ambedue affermano la natura fondamentalmente causale di ogni avvenimento – grande o piccolo che sia – che ci colpisce. L’universo ha quindi una sua logica di sviluppo cui il singolo uomo si può soltanto conformare o accondiscendendovi volentieri o suo malgrado. Per usare una celebre metafora stoica, noi siamo un po’ come un cane legato a un carro: se l’animale decide di seguirlo di buon grado, lo fa autonomamente e al contempo conformemente a necessità; se invece si rifiuta, verrà penosamente trascinato per l’intero tragitto. L’uomo è invero l’animale più infelice di tutti perché restio ad accettare i limiti impostigli dalla natura6.
Questa concezione della libertà, assolutamente contro-intuitiva e totalmente insoddisfacente per noi uomini del XXI secolo, è in realtà forse la più onesta circa la nostra reale capacità di trasformare l’essere in dover-essere, il reale in ideale. In definitiva, credo che la natura abbia permesso a Weil, nonostante la sua formazione kantiana, di comprendere che l’uomo non è un soggetto atomizzato che, armato della propria buona volontà, può prendere in mano le redini della propria vita e condurla a proprio piacimento. Le cose sono molto più complicate di così e questa grande filosofa lo ha compreso perfettamente.
Va tuttavia ulteriormente sottolineato che c’è una netta differenza tra l’obbedienza cieca della materia e quella che Dio richiede a una creatura pensante. Quest’ultima è infatti capace di acconsentire a tale obbedienza. E il consenso presuppone la riflessione e la consapevolezza, attività mentali che in questo frangente, per dirla con Epitteto, si rivolgono all’ambito del “τò ἐφʹ ἡμῖν”, ovvero del proprio. Cercano cioè di individuare che cosa sia propriamente in potere del singolo, su cosa egli abbia legittimamente il diritto di esprimersi e cosa possa realmente desiderare di cambiare. L'unico ambito del reale in cui gli uomini possono evitare di commettere il male ed emendare i propri errori è, per la nostra filosofa, quello sociale.

“Dio ha fatto in modo che la sua grazia, quando penetra al centro stesso di un uomo e da lì illumina tutto il suo essere, gli permette di camminare sulle acque senza alcuna violazione delle leggi della natura. Ma appena un uomo si distoglie da Dio, finisce semplicemente in balia della gravità. Anche se poi ha l'impressione di volere e di scegliere, non è che una cosa, una pietra che cade. Se guardiamo da vicino, con sguardo veramente attento, le anime e le società umane, ci avvediamo che, ovunque sia assente la virtù della luce soprannaturale, tutto obbedisce a leggi meccaniche precise e cieche quanto le leggi della caduta dei corpi. […] I cosiddetti criminali non sono altro che tegole divelte dal vento e cadute a caso. La loro unica colpa è la scelta iniziale che ne ha fatto delle tegole. Il meccanismo della necessità, pur rimanendo sempre identico, si traspone a ogni livello: nella materia bruta, nelle piante, negli animali, nei popoli, nelle anime. Considerato dal nostro punto di osservazione, secondo la nostra prospettiva, esso è completamente cieco. Ma se trasportiamo il nostro cuore al di fuori di noi stessi, […] la dov'è il Padre nostro, e da quel punto torniamo a osservare quel meccanismo, ci apparirà ben diverso. Ciò che sembrava necessità diventa obbedienza: la materia è totale passività, di conseguenza totale obbedienza alla volontà di Dio. Essa è per noi un modello perfetto. […] Grazie alla bellezza del mondo ci avvediamo dell'amore che la materia merita di ricevere da parte nostra. Nella bellezza del mondo, infatti, la necessità bruta diventa oggetto d'amore. Nulla è bello come la gravità nelle fuggevoli pieghe delle onde del mare o nelle pieghe quasi sempiterne delle montagne. Ai nostri occhi il mare non è meno bello perché sappiamo che talvolta vi s'inabissa qualche nave. Al contrario, è ancora più bello. Se il mare modificasse il moto delle onde per risparmiare una nave, non sarebbe più il fluido perfettamente obbediente a ogni pressione esterna, bensì un essere in grado di discernere e scegliere. Ma la bellezza del mare risiede proprio nella sua perfetta obbedienza. Tutti gli orrori che accadono in questo mondo sono come le pieghe che la gravità imprime alle onde del mare. Per questo in essi si racchiude una certa bellezza. […] Una creatura non può non obbedire. L'unica scelta conferita all'uomo come creatura intelligente e libera è quella fra desiderare o non desiderare l'obbedienza. […] Quando sentiamo che in una determinata circostanza abbiamo disobbedito a Dio, significa semplicemente che per un certo tempo abbiamo smesso di desiderare l'obbedienza. Certo, a parità di condizioni, un uomo non compie le stesse azioni acconsentendo o non acconsentendo all'obbedienza; così come una pianta, a parità di condizioni, non cresce allo stesso modo secondo che sia esposta alla luce oppure al buio. La pianta non esercita alcun controllo né ha facoltà di scelta riguardo alla propria crescita. Noi invece siamo come piante dotate di una sola possibilità di scelta: quella di esporsi o non esporsi alla luce. Consigliandoci di osservare i gigli dei campi, che non lavorano né tessono, il Cristo ci ha proposto a modello la docilità della materia. Vale a dire che i gigli non decidono di vestire questo o quel colore, non mettono in moto la volontà né dispongono mezzi a tal fine, ma accolgono semplicemente tutto ciò che la necessità naturale dà loro. A noi paiono infinitamente più belli delle stoffe pregiate non perché ancora più pregiati, bensì per la loro docilità”7



Note

1) S. Weil, Quaderni, II, Milano, Adelphi, 1985, p. 205.
2) S. Weil, La prima radice. Preludio ad una dichiarazione dei doveri verso l’essere umano, Milano, SE, 1990, p. 262. 
3) Agostino, Le Confessioni, Torino, Einaudi, 2015, pp. 339-341. 
4) S. Weil, Quaderni, III, Milano, Adelphi, 1982, p. 131. 
5) S. Weil, Attesa di Dio, Milano, Adelphi, 2008, pp. 134-5.
6) Cfr. E. da Rotterdam, Elogio della follia, Torino, Einaudi, 2014, p. 105. 
7) S. Weil, Attesa di Dio, Milano, Adelphi, 2008, pp. 181-3.