di Giuseppe Tattara 

La vendita di armi
Con l'invasione irachena del Kuwait e la disintegrazione della Jugoslavia negli anni '90, l'Italia ha iniziato a sviluppare attivamente le proprie capacità militari e ha ridisegnato la propria industria della difesa. 
L'approccio dell'Italia alla difesa e alle esportazioni militari è guidato dall'articolo 11 della Costituzione che afferma che l'Italia “rifiuta fermamente la guerra come strumento di aggressione alla libertà degli altri popoli e come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali. L'Italia accetta, in condizioni di parità con gli altri Stati, le limitazioni di sovranità che possono essere necessarie ad un ordine mondiale che assicuri la pace e la giustizia fra le Nazioni. L'Italia promuove e incoraggia le organizzazioni internazionali che perseguono tali fini”.

L'Italia ha successivamente riconosciuto la legislazione dell'UE che nega le licenze di armamento ai Paesi con accertati collegamenti a crimini di guerra, crimini contro l'umanità e violazioni del diritto internazionale e con la legge 185/90 ha stabilito un rigido controllo statale sulle licenze di importazione, esportazione, transito e produzione di attrezzature militari: nel febbraio 2024 il Senato ha proposto il disegno di legge S.855, in discussione ora in commissione alla camera, che  rivede quest’ultima legge, la rende poco trasparente e la svuota di efficacia. La prassi cui si tende è il government to government, ovvero alla firma di contratti di vendita tra governi che poi si traducono direttamente in commesse militari per le aziende, senza molti altri controlli.
Dati recenti (SIPRI: Trends in international arms transfers, 2023) mostrano come l'Italia si trovi al 6° posto nel mondo per le esportazioni di armi tra il 2019 e il 2023, con un incremento dell’86% rispetto ai 5 anni precedenti (era all’8° posto), avendo come principali destinatari Kuwait, Qatar, Usa, Egitto e Turchia. Vendite quindi non collegate alle guerre in corso in Ungheria e Medio Oriente, come spesso viene affermato, quasi fosse una giustificazione. Nel 2022, le entrate derivanti dalle esportazioni di armi italiane hanno raggiunto un nuovo massimo di quasi 4 miliardi di euro. La maggior parte, come abbiamo visto, è destinata a paesi non appartenenti all'UE o alla NATO in particolare in Medio Oriente e Nord Africa.
È difficile attribuire le esportazioni di armi a un governo specifico perché si tratta di operazioni che richiedono tempi lunghi, sono negoziate da un governo e poi realizzate anni dopo, probabilmente da un altro governo. Ricordo che nel passato abbiamo fornito armi agli Emirati Arabi Uniti e all'Arabia Saudita, forniture poi bloccate dal governo Conte per la preoccupazione che tali armamenti venissero utilizzati in Yemen. Nel 2020 e 2021, con il governo Draghi, sono risultate elevate vendite di armi italiane all'Egitto nonostante lo scarso affidamento offerto dal Cairo in materia di diritti umani, pensiamo a Regeni e Zaki, anche se va ribadito che sono venute a maturazione in quegli anni decisioni prese in precedenza che si è scelto di non smentire.

La connessione con il petrolio
La vendita di armi è un'attività molto profittevole. Vari studi hanno riscontrato l'esistenza di una “dipendenza dal petrolio”, che indica che la quantità di armi importate ha una relazione diretta con la quantità di combustibili fossili esportata verso il fornitore di armi. Quanto maggiore è la quantità di petrolio che il Paese A importa dal Paese B, tanto maggiore sarà il volume di armi che il Paese A trasferirà al Paese B e viceversa.
Questo parallelismo tra armi e petrolio non è necessitato, potrebbe trattarsi di altre merci, ma sottintende una trattativa politica, la forza delle lobby. Bisogna considerare che oggi più del 71% delle esportazioni di armi dall’Italia riguarda due imprese a controllo pubblico, Leonardo e Fincantieri, e le transazioni di armi rientrano in uno schema che mette in atto un insieme coordinato di azioni di acquisto/vendita di armi e di altri prodotti, specie petrolio e derivati, in cui entrano direttamente le figure apicali dei governi dei paesi contraenti. In Italia la Farnesina collabora stabilmente non solo con Leonardo e Fincantieri ma anche con Eni, Enel e Snam distaccando presso queste imprese un consigliere diplomatico (ReCommon, Tutti gli uomini del Ministero). L’Eni è oggi un pezzo fondamentale della nostra politica energetica e della nostra politica estera. 
Ripercorriamo allora gli avvenimenti degli ultimi anni per capire come è avvenuto l’aumento del traffico d’armi e quali sono le contropartite.
A gennaio 2023, la presidente del consiglio Giorgia Meloni, accompagnata dall’amministratore delegato di Eni Claudio Descalzi, ha compiuto un viaggio ufficiale in Algeria, seguito da uno in Libia. Durante questi due viaggi ha promosso accordi tra l’Eni e enti statali dei rispettivi paesi, in Algeria con Sonatrach in Libia con National Oil Company, dove ha consegnato cinque motovedette pagate con i fondi dell’Unione Europea, quindi esportazioni italiane.
A novembre dello stesso anno la Presidente del consiglio si è recata alla riunione della Coop27 in Egitto, paese dove Eni è impegnata nella produzione di idrocarburi con i progetti Zohr, Nooros, Baltim W e Meleiha e con l’impianto per la liquefazione di gas di Damietta. In Egitto i colloqui hanno riguardato le forniture di gas dell’Eni e la chiusura delle trattative relative alla consegna di elicotteri militari di Leonardo, di navi militari di Fincantieri, di armi leggere. I negoziati erano iniziati da tempo, le vendite sarebbero state autorizzate già dal governo Conte 2, sono rimaste in parte congelate, e sono state poi gradualmente sbloccate. D’altra parte l’Egitto ha una delle maggiori spese in armi tra i paesi del Medio Oriente e del Nord Africa.
Il picco nella vendita di armi all’Egitto nel 2020 e 2021, quasi due miliardi, rappresenta larga parte delle nostre esportazioni in quel paese (circa il 25 per cento del totale), è parzialmente coperto da prestiti fatti all’Egitto dalla Bank of Alexandria, banca posseduta integralmente da Intesa San Paolo, ed è parallelo a un flusso di alti investimenti italiani nel settore energetico. Eni ha investito nell’impianto di Zohr circa due miliardi di euro annui dal 2017 a oggi. L’Egitto è il paese nel quale si trova il maggiore volume delle riserve di gas di Eni, oltre il venti per cento del totale, e gli investimenti di Eni in Egitto sono molto cresciuti negli ultimi cinque anni.  Solo debolmente Eni ha fatto sentire la sua voce in merito all’uccisione di Giulio Regeni nel 2016, per poi tornare agli affari, in quel momento rappresentati dalla scoperta dell’ingente giacimento di gas naturale di Zohr, uno dei più grandi del Mediterraneo, messo in funzione a fine 2017, e seguito da nuove, ingenti, scoperte di giacimenti nell’area del delta del Nilo. 
Dopo l’estate del 2023  ministro della difesa Guido Crosetto si è recato in visita in Qatar il 17 e 18 ottobre. La visita, da tempo programmata, in concomitanza con esercitazione militare bilaterale “vittoria”, è stata preceduta da una fitta rete di rapporti sfociati nella firma di un  memorandum nel dicembre del 2020, ed è stata seguita da un incontro al Quirinale nell’autunno 2024 tra il presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, e l’emiro del Qatar avente per oggetto la cessione di armamenti italiani allo stato arabo (fregate, corvette, e l’unità anfibia “Al Fulk”, varata da Fincantieri a Palermo qualche settimana fa) sulla base del un contratto di 4 miliardi circa firmato nel 2016. Strettamente connesso è l’accordo firmato con l’Eni per la fornitura per di gas liquefatto stipulato nell’ottobre del 2023, che sarà trattato dalla nave gasiera ancorata nel porto di Piombino. Nel 2020 e 2021 le importazioni di gas liquefatto italiane hanno coperto il 40% della vendita di armi all’Egitto (dato Coeweb e Relazione sulle operazioni autorizzate e svolte per il controllo dell’esportazione, importazione e transito dei materiali di armamento, Gazz.Uff. vari anni).
Le relazioni militari del Qatar con l'Italia vanno indietro nel tempo, al 2017 si era contemplato l'acquisto di equipaggiamenti militari e era stato firmato un accordo bilaterale di difesa in base al quale la marina del Qatar acquistava sette navi militari dall'Italia per 5,91 miliardi di dollari. Inoltre, nel marzo 2018 il Paese del Golfo Arabico ha firmato un contratto del valore di 3,7 miliardi di dollari con NHIndustries, una joint venture tra Leonardo, Fokker Aerostructures e Airbus Helicopters, per l'acquisto di 28 elicotteri militari NH90 e 16 elicotteri leggeri H125. Dai dati di cui disponiamo vediamo che in media le importazioni di armi coprono circa il 40% delle vendite qatariote di petrolio, oli combustibili, gas etc. e il Qatar è tra i primi esportatori di gas in Italia. 
Passando al Kuwait sempre il ministro Crosetto ha sottolineato la profonda cooperazione nel settore della difesa tra Italia e Kuwait rappresentata “[...] dal programma 'Eurofighter Kuwait [datato 2017], un pilastro della nostra cooperazione bilaterale, attualmente in una fase molto avanzata di realizzazione”. Il programma contemplava la vendita di 28 jet da combattimento, di cui 15 sono già stati consegnati e gli altri saranno consegnati nei prossimi 18 mesi”, vi è poi il progetto di un'accademia di volo e prospettive per il settore marittimo. Ricordiamo tuttavia che di recente è stato accertato che nel conflitto in Yemen sono utilizzati mezzi militari prodotti in Italia, come i caccia Eurofighter Typhoon e Tornado e le bombe MK 80 (della RWM Italia). Queste attrezzature sono state esportate in Arabia Saudita, Emirati Arabi Uniti e Kuwait. Le vendite di olio combustibile sono gestite in Kuwait da una società dello stato che opera anche in Italia con il nome di Q8 Italia. Nel caso del Kuwait le trattative hanno implicato la Saipem, società del gruppo Eni, specializzata nella costruzione di pipeline e piattaforme petrolifere.  

Conclusione
In merito al dibattito in Assemblea Costituente sul legittimo ricorso alla violenza bellica a difesa della sovranità del Paese ricordiamo la significativa posizione di Giuseppe Dossetti che proponeva la soluzione al ripudio della guerra di aggressione e di conquista, nella ricerca di una maggiore “collaborazione internazionale per il bene comune» attraverso un’attiva partecipazione del nostro Stato a organismi sovranazionali in grado di porre rimedio alla persistente anarchia che ancora caratterizzava i rapporti tra le nazioni”. Corollario di questa posizione è la distruzione del dogma della sovranità con la costruzione di una “comunità giuridica universale comprendente tutti gli uomini”, e una maggiore collaborazione tra gli Stati. Queste considerazioni, molto lontane dai programmi del governo italiano e dallo scetticismo oggi imperante verso le Nazioni Unite, avrebbero dovuto indurre l’Italia a impegnarsi attivamente nello sviluppo dei propri contatti internazionali e nell’azione diplomatica a favore della pace.
Il recente aumento della vendita di armi da parte del nostro paese ci fa capire che  ci stiamo indirizzando lungo una strada del tutto diversa. Vanno sottolineati alcuni problemi connessi con questa scelta. Il primo riguarda la leggerezza con cui si tratta il tema della vendita di armi a paesi con accertati collegamenti a crimini contro l’umanità in spregio all’art.11 della Costituzione: l’Egitto, il Qatar, la Turchia, Pakistan, l’Arabia Saudita, gli Emirati… sono tutti paesi nei riguardi dei quali Amnesty International ha sollevato molte perplessità sui limiti alla libertà di espressione, abusi e discriminazioni perpetrati a danno dei loro cittadini, specie se donne. Il secondo riguarda il fatto che le armi esportate in un paese che non si macchi di crimini contro l’umanità possono essere usate attraverso triangolazioni e finire a paesi che invece sono colpevoli, come è successo con il rinvenimento di armi italiane nello Yemen. Tutto nonostante la legge n. 185 che vieta l’esportazione e il transito di materiali di armamento a uno stato considerato aggressore e verso paesi i cui governi sono responsabili di gravi violazioni delle convenzioni internazionali in materia di diritti umani, accertate dai competenti organi delle Nazioni Unite, dell'UE o del Consiglio d’Europa». Il terzo punto riguarda la scelta del governo di promuovere la vendita di armi. Questa scelta da un lato ha spinto le due grandi compagini pubbliche, Leonardo e Fincantieri, a potenziare il settore degli armamenti a scapito del settore civile, dove la competizione è più spinta e i profitti sono inferiori, dall’altro a accompagnare i contratti di vendita di armi con contratti che vedono molto spesso l’importazione di combustibili fossili, in capo a Eni e alle sue consociate. Quest’ultima scelta poteva avere una ragione nell’immediato, all’interrompersi delle forniture del gas dalla Russia, ma pone oggi il paese in un vicolo cieco. Infatti la produzione italiana di energia da fonti rinnovabili è inferiore alla media Europea (Eurostat) e meglio si sarebbe fatto se non si fossero potenziate le fonti fossili  e ci si fosse incamminati verso fonti alternative, pur con tutte le gradualità del caso, come hanno fatto tanti altri paesi europei.