Con questo articolo di Carlo Bolpin iniziamo la pubblicazione di una serie di interventi dedicata a "Testimoni di Pace" per comprendere e attualizzare il loro pensiero sulla pace e la nonviolenza.  

A prova del fatto che, da convinta pacifista, Simone Weil (Parigi, 3 febbraio 1909 – Ashford, 24 agosto 1943) sarebbe passata a una legittimazione di fatto della guerra, vengono talora segnalati due “fatti”: la sua adesione alla guerra di Spagna nel 1936 e, in seguito, la risoluta volontà di partecipare alla resistenza contro il nazismo tra le fila di France libre. Per sostenere questa opinione ci si serve di alcune citazioni che, isolate dal contesto, sembrerebbero dare conferma a questa contraddizione. Ipotesi legittima, tuttavia…

Anzi tutto va detto che, nell’intero corso della vita, le sue scelte sono state caratterizzate dall’assunzione d’un impegno in prima persona sia nelle lotte operaie in fabbrica, sia in quelle contro ogni forma di oppressione. Questo non per rispetto di principi astratti, ma per comprendere a fondo e assumere su di sé le condizioni di vita degli «sventurati». Perciò, nel 1936, nonostante il suo radicale pacifismo, decide d’andare a combattere in Spagna a fianco dei partigiani contro la falange franchista. In una celebre lettera a Georges Bernanos (1938), lontano ideologicamente da lei, ma ugualmente critico verso la violenza, preciserà che, pur ripudiando la guerra come strumento di lotta, prova orrore a restare nelle retrovie: è questo stato d’animo che la induce a partecipare moralmente e fisicamente al conflitto, auspicando la vittoria degli uni e la sconfitta degli altri.

Tuttavia, dopo soli due mesi, in seguito a un banale incidente di cui è vittima, è costretta a tornare in Francia. Dentro di sé porta un profondo disgusto: l’impatto con la realtà le ha aperto ancor più gli occhi sulla guerra, vissuta direttamente sul campo sia pure per un tempo brevissimo. Del resto, sempre in lei la realtà ha prevalso sulle idee, rendendola capace di analisi che rileggono in una luce nuova i fatti e ne pongono in evidenza aspetti inediti. Nella stessa lettera a Bernanos, descrive le crudeltà perpetrate da entrambe le parti, che la rinforzano nel suo pacifismo; ha potuto vedere l’abisso che separa i combattenti dalla popolazione disarmata, confermandosi nella convinzione che la guerra, ogni guerra, non è che un bagno di sangue, in cui viene persino dimenticato lo scopo originario del conflitto. In Spagna, i contadini stessi, che avrebbero dovuto essere i protagonisti, le sono apparsi invisibili, del tutto impotenti e irrilevanti. Avendolo costatato di persona, non sente più la necessità interiore di partecipare a una guerra che, da difesa dei diritti di contadini affamati, s’è presto trasformata in confronto militare tra Stati (Russia, Germania, Italia), aprendo le porte alla violenza distruttiva del totalitarismo e dell’imperialismo. L’unica realtà di cui ha potuto prendere atto è stata quella della «forza», che ineluttabilmente produce «sventura», per i vinti come per i vincitori. Reduce dal fronte, è alle ragioni inascoltate dei vinti che intende dar voce. Vuole recuperarne la coscienza: «l’essenziale è l’atteggiamento di fronte all’assassinio». Sa che in guerra viene spontaneo uccidere colui che è considerato nemico: la sua vita è giudicata così priva di valore che chi si macchia del delitto lo fa provando ebrezza, «fascinazione». Persino quando si lotta per una giusta causa, raramente si prova nausea per le morti provocate, si ha paura di «apparire privi di virilità». Ciò accade perché la forza ha un potere ipnotizzante, crea illusioni e occulta la realtà. A quel punto, nulla appare più naturale dell’uccidere.

In vari testi Simone analizza come la forza trasformi chiunque sia colpito in «cosa», in «cadavere». Nel saggio Iliade o il poema della forza, lungi dall’essere energia eroica, positiva, essa fin dalle origini si rivela violenza distruttiva, meccanismo cieco che contagia e degrada tanto chi la pratica quanto chi la subisce. E soprattutto, l’individuo che esercita la violenza sui propri simili perde la propria umanità: forza bruta e potere danno l’illusione di una illimitata potenza dell’io, che senza scrupoli trasforma l’altro in oggetto ; la perdita d’ogni limite porta gli esseri umani nel campo dell’immaginario, dell’irreale : per paura della propria morte, ciascuno è disposto ad uccidere chiunque sia visto come minaccia.

Ma Simone Weil si spinge oltre: analizza la brutalità della forza che presiede le azioni umane non solo in guerra, ma anche in tempo di pace. La guerra, infatti, per una sorta di necessità, tende a perpetuare sé stessa e i meccanismi che l’hanno determinata. In questo senso il nazismo si rivela esemplare da questo punto di vista. È infatti propria di un sistema totalitario l’esigenza di giustificare la violenza attraverso pretesti plausibili, rivestendola d’ideologia e permettendo al vincitore di passare sotto silenzio, rendere quasi invisibili, i crimini di cui s’è macchiato. In un altro suo scritto, Non ricominciamo la guerra di Troia, Simone Weil, con lucidità, smaschera i falsi obiettivi per i quali quasi sempre si combatte: «La cosiddetta sicurezza nazionale è uno stato di cose chimerico in cui si conserverebbe la capacità di fare la guerra privandone tutti gli altri paesi».

L’autentico coraggio, ai suoi occhi, è quello di resistere alla forza. Lo scrive a Marsiglia, in un altro illuminante testo, L’ispirazione occitana: «Conoscere la forza significa riconoscerla come pressoché unica e sovrana di questo mondo e rifiutarla con disgusto e disprezzo. Tale disprezzo è l’altra faccia della compassione per tutto ciò che è esposto alle ferite della forza. Il rifiuto della forza trova la sua piena espressione nella concezione dell’amore».

La ripugnanza verso la violenza che le si è rivelata in Spagna, la conferma nel pacifismo originario, ma al tempo stesso la affranca da ogni astrazione: da quel momento, realismo critico e misticismo in lei riescono a convivere. Questo la induce a comprendere la necessità di «sostituire sempre più nel mondo la non violenza efficace alla violenza» (Q I, p. 334).  Ma come è possibile, di fronte all’hitlerismo? Come resistere alla brutalità nazista in modo efficace, senza commettere altra violenza? E come preservare, intatta, la capacità di pensare, che di continuo rischia di essere annichilita dalla guerra, dalla volontà di vittoria, che a chiunque, anche a chi ha ragione, impone meccanismi ciechi di azione? E accettare la necessità dell’esercizio della forza, sia pure in casi estremi, non significa legittimarlo? Non comporta il rischio d’idolatrarlo? Gli uomini vivono entro un orizzonte storico in cui, come già aveva detto Platone, vi è una «distanza infinita tra la necessità e il bene»: tale distanza, in circostanze estreme, impone di combattere, ma senza mai abdicare alla consapevolezza d’un bene soprannaturale che è l’unica vera fonte di riscatto. L’umanità è davvero tale se sa guardare oltre la necessità, anziché subirla e lasciarsene sopraffare. Per questo, da un certo momento in poi, Simone non avrà più dubbi sull’obbligo di lottare contro Hitler e rinnega l’assolutezza del pacifismo come principio astratto. Riafferma l’obbligo di stare personalmente dentro la realtà della sventura della guerra condividendo la situazione degli oppressi, stando senza incertezza dalla loro parte. Alla forza che distrugge non cesserà di contrapporre quella che lotta al solo scopo di resistere alla violenza, senza alcun compiacimento. Forza d’animo è per lei il sapersi fermare prima di trasformarsi da vittime in carnefici, mantenersi umani al culmine della sventura. Un eroismo del pensare prima che dell’agire.

All’interno di questa realistica riflessione nasce la sua proposta d’un corpo di infermiere di prima linea: possibile antidoto alla violenza delle armi, che non rinuncia alla lotta ma afferma la superiorità dei valori morali rispetto al militarismo. In apparenza ingenua, velleitaria, questa proposta le appare un modo molto efficace simbolicamente di rispondere alla violenza nazifascista senza cedere alla tentazione di trasformarsi in «adoratori della forza». Si tratta, in sostanza, di quella che, molto attratta dal pensiero orientale, lei definisce «azione non agente», una forma di lotta che contrasta la logica della forza, proponendo la cura, la compassione, la solidarietà come antitesi al male dilagante.

Senza successo, a Londra, proporrà al gruppo dirigente di France Libre questo Progetto di una formazione di un corpo di infermiere di prima linea, che avrebbe dovuto prevedere la presenza di giovani volontarie nei punti più pericolosi del conflitto. Lei stessa voleva parteciparvi come testimone concreta di una volontà, di un coraggio finalizzato a salvare le vite, non a eliminarle, in una rottura simbolica col circolo vizioso della guerra. Un “corpo” femminile capace d’agire dentro la necessità, ma senza cedere alla forza, anzi contrapponendo all’illimitata illusione della violenza di guerra quell’infinitamente piccolo, che è il germe dell’amore nel cuore umano. Questa chiarezza, intellettuale e spirituale, con cui legge gli strati profondi della realtà storica nella quale è immersa credo possa aiutare anche noi a compiere una analisi non superficiale delle contraddizioni con cui oggi ci misuriamo. In questo senso, il suo pensiero è decisamente attuale. Non a caso, riflettendo sulla guerra, collega la lotta al nazismo ai futuri nuovi assetti internazionali, in particolare alle lotte di liberazione dei popoli oppressi dal colonialismo, quindi al rapporto dell’Europa col resto del mondo. La Francia, a suo giudizio, dopo la guerra non potrà continuare a esercitare la stessa forza, brutale e sradicante, che il nazismo stava allora attuando in tutta Europa. Il declino della nazione sarà inevitabile se essa persisterà nello sradicare le culture dei popoli. Una volta vinta la guerra, il persistere in Francia e in Europa di una narrazione illusoria di sé, del proprio incontrastato dominio sui popoli colonizzati, finirà per essere fonte di nuove, inevitabili, sventure.  Se i Francesi, se gli Europei, non colgono questi nessi, se ai loro occhi la forza resta l’unica chiave interpretativa del destino di un Occidente malato, perderanno ben presto il ruolo culturale egemone che pretendono ancora di esercitare. A nulla servirà riarmarsi fino ai denti. Di fatto, seguendo quella via, sarà inevitabile che soggiacciano alla più agguerrita potenza militare ed economica degli Stati Uniti, di cui rischiano di divenire satelliti. Viceversa, se l’Europa del dopoguerra vorrà preservare identità e ruolo d’attrazione rispetto agli altri paesi, dovrà prendere la strada dell’incontro con le spiritualità orientali. Questo il punto di vista di Simone Weil, denso di suggestioni per noi. Impregnata di queste ansie per le sorti future della civiltà europea, negli ultimi mesi di vita si impegnerà a elaborare ipotesi di una nuova Costituzione nell’intento di suggerire una prospettiva concreta a un’idea di pace fondata sugli obblighi reciproci tra i cittadini e adeguate garanzie giuridiche.

Il primato dell’obbligo rispetto ai diritti individuali è un altro punto-cardine della sua riflessione politica estrema. Non ha trovato adeguata comprensione in quegli anni, ma ora forse possiamo comprenderne meglio il senso, in questa fase storica in cui alla proliferazione disordinata e conflittuale dei diritti individuali non sempre tiene dietro un’adeguata valorizzazione del principio dell’obbligo di rispetto d’ogni essere umano nei suoi bisogni materiale e spirituali. Tanto più che l’emergenza ecologica che affrontiamo dovrebbe indurci ad aprire gli occhi anche sulle nostre obbligazioni verso ogni altra forma vivente in natura. Altro grande tema di riflessione.