di Carlo Bolpin
Concordo con quanto scrive Paola Cavallari sullo “stupro bellico” (Lo stupro bellico: "quintessenziale" della virilità). Penso che occorra alzare la voce sulle tematiche che lei affronta, troppo poco considerate. Non si ripete mai abbastanza il concetto di fondo: “quella dell’uomo sulla donna è la forma di violenza primigenia, […] che funge da modello e precede – se non storicamente certo su un piano simbolico – ogni altra forma di conflitto, sia etnico, religioso, tribale, di classe, di partito o di nazione; in altre parole, il modello della sopraffazione pura, prima dell’oppressione dell’uomo sull’uomo, quella della oppressione dell’uomo sulla donna”. Non se ne traggono le conseguenze sul piano culturale e dell’azione pratica nei diversi settori pubblici e interpersonali.
Cerco di porre alcune questioni per invitare all’approfondimento, senza ribadire quanto Paola scrive bene.
Per dire tutta la complessità della questione, penso vadano tolte le definizioni e le narrazioni riduttive, e si debba, quindi, parlare dello stupro e di ogni forma di violenza sessuale ai danni delle donne durante conflitti armati o occupazione militare come crimine di guerra e contro l’umanità, contro i diritti e le libertà fondamentali dell’individuo.
Cito solo alcune tappe significative dell’evoluzione del diritto internazionale in questa materia. Nel Primo Protocollo aggiuntivo alla Convenzione di Ginevra del 1977, all’art. 27 comma I, si afferma: “[…] Le donne saranno specialmente protette contro qualsiasi offesa al loro onore e, in particolare, contro lo stupro, la coercizione alla prostituzione e qualsiasi offesa al loro pudore”. E All’art. 76, comma I del Protocollo: “Le donne saranno oggetto di un particolare rispetto e saranno protette, specialmente contro la violenza carnale, la prostituzione forzata e ogni altra forma di offesa al pudore”.
Si va verso il riconoscimento delle diverse forme di violenza sessuale come violazione dei diritti umani delle donne. Lo Statuto di Roma della Corte penale internazionale, in vigore dal 1° luglio 2022, dichiara non solo gli stupri tra i crimini contro l’umanità e i crimini di guerra ma pone tra le forme di violenza sessuale anche la prostituzione forzata, la sterilizzazione forzata o “altre forme di violenza sessuale di analoga gravità”.
Le Nazioni Unite nel 2007 istituiscono “una rete di 24 entità delle Nazioni Unite, unite dall’obiettivo di porre fine alla violenza sessuale durante e dopo i conflitti armati”.
Questa evoluzione del diritto internazionale porta ad affermare due concetti culturali di fondo, non ancora acquisiti nella mentalità diffusa, nella coscienza storica, ma nemmeno nelle legislazioni nazionali, che dovrebbero legiferare in questo senso anche in materia dei comportamenti dei propri eserciti.
Il primo concetto è che in situazioni di lotta armata e di occupazione militare vanno colpite tutte le forme di violenza sessuale: lo stupro, la prostituzione, tutte le azioni contro la dignità del corpo delle donne.
Il secondo concetto riguarda le “giustificazioni” date alle violenze, in merito al “consenso” della vittima. Riprendo l'articolo 36 della Convenzione di Istanbul (2011) in cui si pone la mancanza di consenso al centro della definizione giuridica di stupro e di altre forme di violenza sessuale. Viene infatti affermato che “il consenso deve essere dato volontariamente come risultato del libero arbitrio della persona valutato nel contesto delle condizioni circostanti”. Per valutare il mancato consenso si deve valutare anche lo squilibrio di forze tra l'autore della violenza e la vittima non solo come forza fisica ma anche psicologica, legata al potere dell’autore di fronte alla debolezza, alla ricattabilità e alle condizioni di inferiorità e di bisogno economico della vittima. Le autorità violano gli obblighi positivi di protezione delle vittime di stupro e violenza sessuale, se non tengono conto di queste condizioni anche per attivare le necessarie azioni preventive.
A fronte di questa maturazione della cultura giuridica internazionale la realtà è radicalmente diversa. Gli Stati e gli eserciti esigono immunità in base alla loro potenza.
Le violenze degli eserciti vincitori non sono mai perseguite, anzi sono sempre rimosse e nascoste (e poco studiate dalla storiografia), riguardanti sia le violenze singole ma diffuse, quelle strutturali, quelle sistematiche autorizzate come premio ai soldati e come punizione della popolazione nemica. Questo è accaduto sia nelle due guerre mondiali e nelle altre successive guerre per la “democrazia”, quelle “umanitarie e “preventive”” dal Vietnam in poi…
Cito due casi “esemplari”, tra i tanti possibili.
Per sollevare il morale dei soldati e per “distrarli” dalle atrocità della “prima linea”, l’11 giugno 1915 il generale Luigi Cadorna sollecitò la creazione di “appositi locali accessibili soltanto ai militari”, i “casini di guerra”, regolamentati dall’Esercito, nei quali le donne avevano un trattamento bestiale. Una condizione quindi “naturale” e necessaria per la vittoria della “giusta causa”.
“È la guerra” ha detto un generale francese a chi protestava contro gli stupri dei soldati francesi autorizzati come premio, compiuti sistematicamente dalla Sicilia a Firenze nel 1943, considerati atti conseguenti alla guerra. Dopo la liberazione note sono le condizioni delle donne (ma anche di bambine e di bambini) costrette alla prostituzione per fame.
È terribile che la fame sia sfruttata per usare le donne o come arma di guerra, come quando israeliani distruggono gli aiuti alimentari a donne e bambini palestinesi.
Così la ferocia diventa qualcosa di ordinario, un effetto collaterale, un “fatto” naturale e inevitabile, come lo è la guerra.
Questo è il nodo. Simone Weil, dopo la sua esperienza nella Guerra spagnola capisce che “in guerra viene spontaneo uccidere colui che è considerato nemico: la sua vita è giudicata così priva di valore che chi si macchia del delitto lo fa provando ebrezza, "fascinazione". Persino quando si lotta per una giusta causa, raramente si prova nausea per le morti provocate, si ha paura di "apparire privi di virilità". Ciò accade perché la forza ha un potere ipnotizzante, crea illusioni e occulta la realtà. A quel punto, nulla appare più naturale dell’uccidere”.
Simone Weil parla di “virilità” nell’uso della violenza. Anche oggi si usa questo termine, rivelatore di una cultura, da parte di chi accusa di aver perso “virilità” chi è contrario all’ingresso dell’Europa nella guerra in Ucraina.
Ho sentito una donna israeliana giustificare sia l’occupazione illegale delle terre e delle case dei palestinesi cacciati anche con la forza e con omicidi, sia i massacri e le distruzioni di case, ospedali e scuole, “giustamente” affermando che gli occidentali hanno fatto la stessa cosa combattendo per la libertà, quando hanno lanciato le bombe atomiche, hanno distrutto intere città totalmente rase al suolo.
Dico “giustamente” perché gli Stati e i cittadini europei e americani non hanno fatto i conti con questi crimini, rimossi e legittimati come naturale effetto della guerra, conseguenza inevitabile dell’uso della forza violenta. Può una giusta causa (ma chi considera la propria guerra ingiusta?) legittimare atti che, se commessi dal nemico, sono crimini? In nome della vittoria si può disumanizzare un’intera popolazione come nemico? Donne e bambini sono ridotti a cose, senza nome e volto, senza sangue e dolore, da distruggere come gli altri ostacoli alla propria vittoria. Tutto viene ridotto e strumentalizzato a categorie astratte.
Gran parte dello scontro, per quanto so, sul 7 ottobre e sul dopo, mi sembra viziato dal dover schierarsi nella contrapposizione tra vittime “pure” e persecutori “puri”, da vittime che diventano carnefici, identificati reciprocamente come “palestinesi” o “ebrei” in base al proprio schieramento.
Non può esistere una gerarchia delle violenze, non si può giustificare e legittimare le violenze in base a una scala delle appartenenze delle vittime a un popolo o a un altro.
Va invece affermato il diritto internazionale come argine alla barbarie, secondo il principio per il quale non si può rispondere a violazioni del diritto umanitario e dei diritti umani, con analoghe violazioni. Non manca infatti il diritto internazionale per tutelare i diritti offesi e per prevenire e risolvere i conflitti in base, appunto, al diritto e non all’arbitrio della forza. Questa pretesa è una utopia? Se lo è la lotta per eliminare la guerra, lo è la lotta per eliminare gli stupri, i femminicidi e la prostituzione.
David Grossman, nell’intervista a “la Repubblica” del 17 giugno 2024, pone il problema centrale: “Come vivono gli israeliani il dolore dei palestinesi?” riconoscendo che ”Al centro del dolore dei palestinesi a Gaza ci sono le migliaia di vittime, moltissimi bambini”, e che “C’è qualcosa che accomuna il dolore di Israele per il 7 ottobre e il dolore per le vittime civili di Gaza: è il senso della violazione delle proprie case”. “Abbiamo prima assistito al dolore di Israele il 7 ottobre e poi al dolore di Gaza, alle vittime civili israeliane e a quelle palestinesi”. Quindi “Noi abbiamo la responsabilità di porci nei loro panni. Noi israeliani dobbiamo consentire alla narrazione dei palestinesi di infiltrarsi nella nostra. Questo non ci danneggerà, ci aiuterà ad assumerci la responsabilità di ciò che stiamo facendo a Gaza”.
Su questa base Grossman indica alcune prospettive per costruire dialogo e convivenza pacifica.
Credo che sia nostro compito e responsabilità, nei diversi luoghi in cui operiamo, contribuire a quanto propone lo scrittore israeliano, rappresentante della grande cultura e letteratura ebraica, uscendo dalle logiche di schieramento amico-nemico, Bene e Male.