A proposito di un intervento di Edoardo Albinati
di Paola Cavallari, in Il paese delle donne on line
Daly Mary, filosofa femminista, lo aveva raccomandato più volte: occorre connettere le questioni per dare conto dell’estensione, della pervasività e della capillarità del dominio maschile. Pierre Bourdieu, da par suo, ha rinforzato: le interconnessioni sono fondamentali per aprire gli occhi sul dominio maschile, che si serve della dissimulazione e della dissociazione come suoi punti di forza.
In questi tempi di Guerra e pace si parla spesso, purtroppo. Si parla molto meno e con meno intensità e convinzione di violenze sulle donne (l’onda d’urto dopo il femminicidio di Giulia Cecchettin si è affievolita, ma comunque non annullata). Quasi mai, però, si mettono in connessione i due fenomeni. Si fanno apparire come sfere a sé, irrelate. Più in generale si tende a non mettere in circolo guerra e sesso/sessualità. Divide et impera, verrebbe da dire.
In un video registrato e poi trasmesso all’interno dell’incontro: “La violenza maschile parla di noi. Parliamone”, organizzato dalla associazione Maschile Plurale a Roma il 6 aprile 2024, Edoardo Albinati, autore de La Scuola cattolica, ha nuotato controcorrente (anche in quel contesto) e ha argomentato con grande incisività e maestria la interconnessione tra i due ambiti, a partire dalla categoria/realtà dello stupro bellico. Un andar controcorrente al quadrato, poiché ha “osato” prendere come exemplum dello stupro bellico proprio l’evento del 7 ottobre, il giorno del pogrom compiuto da Hamas in territorio israeliano.
Già nell’esordio Albinati esprime con lucida radicalità la figura del crimine: “Lo stupro bellico … potrebbe essere visto come un accidente, un semplice corollario, un effetto collaterale dell’azione militare vera e propria. Ma non è così, è esso stesso parte integrante dell’azione militare, ne è per così dire la forma primaria, arcaica, appunto quintessenziale”.
La radicale presa di coscienza maschile che emerge da questi enunciati è un dato davvero singolare nel panorama degli scrittori (ma non solo) italiani; ma c’è dell’altro che io, femminista, saluto con interesse.
La finezza dell’argomentazione di Albinati si basa anche sul come si deve ragionare: è fondamentale tenere separate e distinte categorie che appartengono a ordini differenti. Due sono infatti gli ordini semantici: quello relativo all’evento dello stupro – che è un fatto politico – e quello relativo al conflitto israelo-palestinese – altro fatto politico. Se vengono mischiati, la cultura dominante, tendente a banalizzare lo stupro come un fenomeno brutale ma inevitabile, rappresentandolo così con modalità apparentemente neutra ma che neutra non è, produrrà una eclisse del crimine sessuale, non solo riducendo a irrilevanza una brutalità ai limiti dell’annientamento, ma sottovalutando l’attitudine maschile a tali abiezioni, insite nella costruzione della virilità.
Nelle rappresentazioni delle vicende sul 7 ottobre e giorni seguenti, è avvenuto esattamente questo slittamento per nulla innocente: “Non intendo minimamente entrare nel merito politico e militare di quell’avvenimento e di ciò che ne è seguito, scrive Albinati, cioè i bombardamenti e le operazioni di terra dell’esercito israeliano a Gaza. Far questo vorrebbe dire ancora una volta far prevalere un ordine di discorso politico su un altro, il che puntualmente è avvenuto negli ultimi mesi”.
Osservo che tale prevalenza del discorso falso neutro su quello di “genere” è essa stessa un fatto politico: l’ordine del discorso patriarcale maschile, anche in questo caso e anche in ambienti non sospettabili, ha fagocitato al suo interno l’ordine del discorso che leggeva la realtà con lenti sessuate, ponendo al centro ciò che riguardava le donne, seppur per un aberrante crimine nei loro confronti.
Stupri, torture, femminicidi subiti dalle israeliane saranno poi documentati ampiamente attraverso indagini anche dell’ONU: documentazione accertata, ma non sufficiente a molte e molti, ostinati a negare o sottovalutare la gravità dell’elemento sessista in questione.
Lo sguardo dello scrittore, come annunciato nell’incipit, perlustra nei fondali di quella violenza e la legge con la lente di uomo che, scavando, rintraccia aspetti di una attitudine distruttiva della identità maschile, profondamente radicata, stratificatasi nel tempo, arcaica dunque. La nomina per ben due volte come “quintessenziale”: tale attributo evoca una coraggiosa autocritica, un mettersi a nudo a caro prezzo. “L’aggressione sessuale si è confermata come l’azione privilegiata e quintessenziale rivolta a ferire e annientare il nemico. … Il corpo delle donne, nell’ ennesima situazione, è stato scelto come teatro di guerra destinato … a rendere indisputabile la vittoria”.
Come a dire: la padronanza sulle “proprie” donne è segno dell’identità del maschio, ovvero costitutiva della sua coscienza storica, del suo onore. La “propria” donna “posseduta” dal nemico non è solo un’onta, ma una lacerazione profonda, una amputazione dell’Io, equivalente ad una castrazione simbolica, il dramma per eccellenza. L’umiliazione non è riducibile al mero dato della sconfitta, un baratro da cui si potrebbe anche risalire nel futuro, ma va oltre: rappresenta un tragico segno immarcescibile, inemendabile.
Si può ipotizzare un doppio movimento.
Da un lato quello incentrato sulle dinamiche uomo-uomo. Riguarda il perpetrare il male sul nemico maschio, infierendo attraverso quel teatro della crudeltà dove il corpo femminile funge da simulacro, strumento privilegiato attraverso il quale posso “dimostrare” ai compagni (maschi) la mia potenza sessuale: sono un uomo! Godimento dei godimenti; infierire sul nemico con morbosi meccanismi perversi, portarlo all’annichilimento, a quell’annientamento che patisce colui il quale, con questo oltraggio, è stato “disonorato”, al quale è stato strappato (evirato) lo status di uomo: scacco mortale irriducibile, vulnus irrimediabile; ciò che Albinati definisce icasticamente “indisputabile vittoria”.
Lo scenario di guerra evoca il terrificante; nello stesso tempo risveglia i fantasmi dell’onnipotenza virile, dell’invincibilità guerriera, nel momento stesso in cui si rende prossima la morte, che s’affaccia accompagnata dal corredo del terrore di perdita della propria potenza virile.
Eros e thanatos stanno di fronte. La donna è colei che, nel simbolico, dà nutrimento, accrescimento, vita. Ad una esistenza minacciata dalla perdita assoluta si spalanca un irrefrenabile istinto acquisitivo di procurarsi potenza, magicamente, perversamente.
Scrivono Paola Zarletti e Maria Micozzi, psicanaliste:
«Il circolo vizioso si stringe in modo ossessivo – tanto maggiore diventa la necessità di essere potente e tanto più diventano essenziali l’esercizio del controllo e acuta l’ossessione per tutto ciò che suona minaccia alla potenza [...]. Ed è proprio nella perdita della padronanza di questa potenza virile immaginaria che dobbiamo andare a cercare la spinta all’azione violenta quale strumento di riconquista della padronanza perduta attraverso l’esercizio del potere di vita e di morte dell’altra. [...] il terrore e il rifiuto della propria vulnerabilità si traduce in una spinta ad “accumulare” vita» (Paola Zaretti, a cura di, La Paura dell’impotenza e lo stupro, Metafore dell’indicibile, Con-fine edizioni, 2011, p 22. La citazione di Maria Micozzi è pure a p.22).
Nell’ambito della letteratura psicanalitica trovo altre annotazioni interessanti: «I popoli primitivi, provati della guerra, dicono di non sentirsi più uomini», ha scritto lo psicanalista Franco Fornari in Psicanalisi della guerra: si parla di «omologazione del bellicoso al virile e di omologazione del non bellicoso al femminile-castrato. [...] nell’inconscio degli uomini le armi equivalgono al pene, il disarmo viene concepito come castrazione» (Franco Fornari, Psicanalisi della guerra, Feltrinelli, 1996, pp. 59-60).
Che guerra e sessualità non possano essere disgiunte, che per contrastare la prima occorra assumere la seconda, e che gli uomini in primo luogo debbano – se sostengono di opporsi alla guerra – rielaborare i fantasmi incistati nella identità maschile per decostruirli e portarli all’ordine della parola, viene rimosso costantemente, e non solo da loro.
Al centro del suo intervento, Albinati nomina l’impianto androcentrico e sessista della nostra organizzazione sociale con esemplare radicalità: lo stupro costituisce “per così dire la forma primaria, arcaica, appunto quintessenziale […] quella dell’uomo sulla donna è la forma di violenza primigenia, una sorta di ur-violenza, archetipica e fondativa, che funge da modello e precede – se non storicamente certo su un piano simbolico – ogni altra forma di conflitto, sia etnico, religioso, tribale, di classe, di partito o di nazione; in altre parole il modello della sopraffazione pura, prima dell’oppressione dell’uomo sull’uomo, quella della oppressione dell’uomo sulla donna”.
Come molte di noi femministe abbiamo sostenuto fin dagli anni 70, alla radice delle varie espressioni del male, e lo stupro ne è una delle estreme – c’è una struttura simbolica e materiale: è quell’impianto che inscrive nella coscienza storica una sorta di “sopraffazione pura”, un privilegio maschile e una soggezione femminile, velati entrambi dalla colonizzazione culturale del dominante.
Per dirla con la antropologa femminista Héritier, non possiamo prescindere dalla presa di coscienza di una originaria valenza differenziata dei sessi a sfavore delle donne, fondata sulla pretesa maschile di accaparrarsi quella potenza che sa dell’origine della vita.
Infine: nel mio commento (pagina Facebook di Maschile plurale) al video di Albinati, informavo che dopo il 7 ottobre sono state lanciate almeno due petizioni a favore di una presa di parola forte e chiara che nominasse questi stupri; una delle due era proposta da alcune donne amiche e da me (https://chng.it/TNCmqPPLNq). In essa si poteva leggere: «Il 21 novembre 2023 su "HuffPost Italia" Paola Tavella, nota femminista storica, scriveva: “… in Israele il 7 ottobre le donne sono state uccise, stuprate, denudate e oltraggiate in tutti i modi da Hamas: è stato un femminicidio di massa. Sarebbe stato giusto che anche in Italia le femministe non avessero taciuto, perché l’autonomia e la libertà del movimento delle donne vengono al primo posto rispetto a qualunque altro schieramento, altrimenti si resta miseramente subalterne alla logica degli uomini». Entrambe le petizioni hanno avuto vita travagliata. Ma questa è un’altra storia. O forse no.