di Maurizio Ambrosini, in Avvenire del 20 giugno 2024

A volte le coincidenze sono illuminanti. È appena finito il G7, che nel suo comunicato finale menziona le migrazioni, ma adottando quell’approccio che ormai è diventato abituale nel discorso istituzionale dei paesi avanzati. I grandi del mondo hanno lanciato “la Coalizione del G7 per prevenire e contrastare il traffico di migranti”, affermando: «ci concentreremo sulle cause profonde della migrazione irregolare, sugli sforzi per migliorare la gestione delle frontiere e frenare la criminalità organizzata transnazionale e sui percorsi sicuri e regolari per la migrazione». L’ultimo aspetto, il più importante, viene solo dopo la sorveglianza dei confini e la lotta contro gli arrivi non autorizzati.

Parlare di “percorsi sicuri e regolari” per gli ingressi significa prevedere qualche sbocco per i lavoratori, ma allo stesso tempo chiudere le porte a chi arriva come può, perché fugge da guerre, repressioni, violazioni sistematiche dei diritti umani. Ossia gran parte dei rifugiati, richiedenti asilo e altre persone che necessitano di protezione umanitaria. Non si era ancora spenta l’eco del vertice che la BBC ha pubblicato un documentario in cui illustra al mondo che cosa significa lottare contro la cosiddetta “immigrazione irregolare” e difendere le frontiere. La frontiera in questione è quella marittima tra Grecia e Turchia, dove la Guardia Costiera ellenica in più occasioni ha interpretato il suo mandato di difesa dei confini nazionali ed europei gettando in mare i migranti che tentavano di raggiungere il territorio dell’Ue per chiedere asilo. Sapevamo già da parecchie testimonianze che le autorità greche non usavano i guanti bianchi per scacciare l’umanità indesiderata, ma l’emittente britannica ha documentato 15 episodi, avvenuti tra il maggio 2020 e il maggio 2023, in cui le azioni di contrasto si sono tradotte nel respingere o riportare in alto mare i natanti già approdati sulle isole greche,
causando oltre 40 vittime. In nove casi, le persone in cerca di asilo hanno perso la vita dopo essere state letteralmente gettate in mare dalle motovedette di Atene. L’inchiesta, documentata da filmati e testimonianze oculari, parla di percosse, di gommoni sgonfiati o forati deliberatamente, di persone braccate dopo lo sbarco, arrestate da agenti in borghese e reimbarcate a forza prima che potessero raggiungere i centri in cui presentare domanda di asilo. Insomma, una galleria degli orrori che illustra a quanta crudeltà possa giungere l’ossessione dell’invasione, la disumanizzazione dei migranti, la loro riduzione ad “arma ibrida”, come sono stati definiti su un altro confine
dolente, quello tra Polonia e Bielorussia. Le smentite greche, la rivendicazione delle vite salvate e del rispetto degli obblighi internazionali, raccontano che il ricorso ai respingimenti illegali non è l’unica risposta agli arrivi dal mare. Ma il clima di costante allarme, l’assolutizzazione dei confini, l’enfasi sull’irregolarità degli ingressi portano a giustificare il ricorso alla violenza e preparano il terreno per azioni spietate come quelle denunciate dalla BBC. C’è infine una terza coincidenza da ricordare: oggi, 20 giugno, è la Giornata mondiale del rifugiato.
Dall’inizio dell’anno sono già 920 i morti nel Mediterraneo (Save the Children), quasi 30.000 le vittime accertate negli ultimi dieci anni. Le notizie sui naufragi, due negli ultimi giorni, rischiano ormai d’incontrare assuefazione e passività, raggiungendo un’opinione pubblica sempre più indifferente, rassegnata o convinta che sia un prezzo inevitabile da pagare per difendersi da un’invasione che non c’è. Va riconosciuto sul versante italiano l’impegno della Marina Militare e della Guardia Costiera nella realizzazione di gran parte dei salvataggi: un lavoro che resta nell’ombra, perché politicamente scomodo e incredibilmente impopolare. Nel Mediterraneo serve invece una nuova operazione Mare Nostrum, italiana e possibilmente europea, per dare credibilità alla pretesa di essere un faro di civiltà e di rispetto dei diritti umani nel mondo.