di Silvia Rizzo, insegnante, impegnata in progetti di accoglienza di immigrati
Quando la filosofia non è pura metafisica o mera dissertazione logico-razionale anche una parola si può trasformare in una nuova lente con cui osservare e analizzare il mondo. L’ethos del riconoscimento di Lucio Cortella, indagine sul concetto di riconoscimento partendo da Hegel e attorno a Hegel, mi ha dato spunti per riflessioni pragmatiche. Il termine riconoscimento ha acquistato valore di strumento di comprensione e di analisi delle dinamiche dell’uomo sia a livello esistenziale che politico, di comprensione del reale, in quanto riguarda non solo la sfera delle relazioni sentimentali, familiari e amicali ma anche sociale, giuridica e politica.
Il riconoscimento sociale è proprio uno dei fattori più importanti per quanto concerne la creazione dell’identità. Essere visti e allo stesso tempo vedere l’altro, riconoscersi, riconoscere ed essere riconosciuti ci dà reciprocamente consistenza. Sentirsi visti è un bisogno umano, è naturale voler essere considerati. Io attendo il tuo riconoscimento per consistere nella mia identità e al tempo stesso riconoscendoti costruisco la tua. Ognuno di noi, come ci ricorda Hannah Arendt, è spettatore della vita degli altri e al tempo stesso attore della propria a cui gli altri assistono, a loro volta, come spettatori.
Al contrario la negazione di riconoscimento assume due forme: il misconoscimento (méconnaissance) e l’invisibilità che ne è la conseguenza.
E se il riconoscimento è fondativo della costruzione dell’identità del singolo o della collettività, il misconoscimento è lo strumento di decostruzione dell’identità e genera conflitti che nascono dal desiderio delle parti di essere rìconosciuti, scatenando conflitti interpersonali o battaglie per le rivendicazioni di dignità, autonomia e coscienza di sé. Ergo il misconoscimento è la causa dei conflitti interpersonali, intersoggettivi, sociali e, aggiungo, internazionali. Se il riconoscimento è il presupposto dell’autorealizzazione individuale e collettiva, il misconoscimento è la fonte di tutte le violazioni, i conflitti e le violenze conseguenti.
È anche vero che il riconoscimento che avviene sulla base di un ethos condiviso può diventare omologazione, subordinazione e neutralizzazione dell’alterità dell’altro, può spingere verso forme di conformismo pur di sentirsi riconosciuti.
Pensiamo al riconoscimento nelle relazioni affettive o sentimentali. Riconoscersi reciprocamente è alla base della stima, della fiducia, e del fidarsi dell’altro e dell’affidarsi all’altro. Pur tuttavia il riconoscimento non è mai dato una volta per tutte e può anche venir meno. Viceversa il misconoscimento che può subentrare a un certo punto del rapporto può trasformare la relazione in un rapporto tossico che può portare alla sottrazione dell’empatia necessaria alla convivenza. Il misconoscimento è il preludio alle umiliazioni, alla sottrazione della libertà della donna, dell’indipendenza e dei diritti della donna che diventa succube del maschio che misconosce la sua identità, modalità che è alla base delle violenze domestiche o dei femminicidi. Negare il riconoscimento è lesivo, in quanto pregiudica l’idea che la donna ha di sé. La soggettività è compromessa e l’identità lesa, poiché il misconoscimento può provocare il crollo e la crisi del soggetto. Le violenze domestiche e i femminicidi hanno questo alla base: il misconoscimento che danneggia gravemente l’autostima e l’integrità psichica, annientando l’equilibrio, la dignità e l’identità, la soggettività. E ancora, il sessismo, l’uso strumentale dell’immagine della donna, si basa proprio su questo: sul mancato riconoscimento del suo essere persona, di essere senziente e pensante. Reifica, de-umanizza l’altra, riducendola a mero simulacro di un’iconografia stantia e obsoleta. Viceversa, mettere al centro la persona con i diritti di cui è depositaria le restituisce dignità e identità.
Il riconoscimento sociale, rafforzando l’autostima, consente la definizione della propria identità nel contesto sociale, sul piano lavorativo, la propria collocazione nel mondo e nel mondo del lavoro, la propria auto-realizzazione sociale oltre che esistenziale. Il misconoscimento sottrae spazi sociali, pubblici, deprivandola e relegandola alla pura sfera privata.
E che dire del riconoscimento dei diritti di tutti, pensiamo alle battaglie del passato per il riconoscimento dei diritti sociali, i diritti delle minoranze, che, se non vengono riconosciuti, innescano rivendicazioni da parte di gruppi minoritari che lottano per vedere i propri diritti riconosciuti.
Il razzismo ha alla base lo stesso meccanismo: l’affermazione dell’identità del gruppo, l’appartenenza identitaria presuppone il rifiuto dell’altro e il misconoscimento della dignità e della identità dell’altro, del diverso secondo il meccanismo per cui io difendo la mia identità misconoscendo la tua, non riconoscendo l’alterità dell’altro. Ha, quindi, uno straordinario potere svalorizzante, discreditante, stigmatizzante. Le politiche migratorie si fondano proprio su questa asimmetria e mancata reciprocità: chi ci riconosce nella nostra identità di gruppo con una sua identità non viene riconosciuto o viene riconosciuto come una minaccia nei confronti della coesione identitaria e l’apporto dell’altro viene visto come una “sostituzione etnica” da aborrire e impedire con ogni mezzo!
Cosi il nazionalismo, deteriore involuzione e degenerazione del concetto di nazione (o sovranismo o suprematismo), con la sua pretesa identitaria misconosce le minoranze che rappresentano una minaccia per la sua integrità. Imbriglia all’interno dei confini quel senso di appartenenza che ha come rovescio della medaglia, l’esclusione e il misconoscimento di chi non viene percepito come appartenente alla collettività, di chi viene percepito un corpo estraneo. Rivendicazioni di riconoscimento e negazione del riconoscimento di intere collettività, sono alla base dei conflitti tra etnie oggetto di misconoscimento da parte di istituzioni statali che negano l’esistenza di gruppi e di popoli con una loro identità che non viene riconosciuta dall’altro, di chi, pur essendo parte integrante non viene considerato parte di quella comunità, dalla quale per ciò stesso ne viene escluso. E se l’individuo misconosciuto ingaggia una lotta per essere riconosciuto, altrettanto succede ad una comunità che rivendica il riconoscimento antropologico del suo esistere. Ciò favorisce, ovviamente, i diversi fanatismi e integralismi che innescano violenze, conflitti o terrorismo.
Mi riferisco, ad esempio, al popolo curdo misconosciuto dai paesi nei quali è distribuito e a cui viene negato il diritto ad avere uno stato con tutti i diritti ad esso connessi: confini certi, esercito, leggi, etc. Pensiamo al genocidio dei Tutsi nel Rwanda o dei Rohingya in Myanmar, (per fare gli esempi più eclatanti) a cui era stato negato il riconoscimento ad esistere.
Pensiamo, infine, al conflitto che più di ogni altro è una minaccia per l’intera umanità, quello israelo-palestinese dove il più forte, lo stato “ebraico”, nega l’esistenza del popolo palestinese e dall’altro lato Hamas, rappresentante del popolo palestinese, misconosce l’esistenza dello stato di Israele. Qui secondo me sta il nodo. Amos Oz dice che una buona pratica è mettersi nei panni dell’altro per sconfiggere ogni fondamentalismo. Ecco “mettersi nei panni di” significherebbe provare a riconoscere reciprocamente l’esistenza dell’altro per poter accettare la sua identità e per promuovere una convivenza tollerante e pacifica. Invece, l’affermazione del nazionalismo sionistico da un lato e dall’altro la spinta dei palestinesi a difendere il proprio spazio da sempre minacciato, la perpetuazione di un decennale misconoscimento reciproco impedisce la possibilità di un approccio dialettico che possa consentire l’accettazione, l’accoglienza e l’identità dell’altro.
La pace sia a livello personale che politico si costruisce attraverso il riconoscimento dell’altro e dei suoi diritti.