di Maurizio Ambrosini, in “Avvenire” del 30 marzo 2024
La preoccupazione per i risultati scolastici degli alunni di origine immigrata è fondata. Si tratta di oltre 870.000 iscritti, pari al 10,6% della popolazione scolastica complessiva. Diagnosticare i problemi di abbandono, ritardo scolastico, difficoltà di apprendimento, è il primo e necessario passo per investire in interventi di sostegno e accompagnamento.
Porre la questione in termini di nazionalità, ossia d’incidenza degli alunni “stranieri” sul totale, incanala però il dibattito su binari sbagliati: fa pensare che sia l’origine in sé a rappresentare una sorta d’invisibile handicap che condiziona i processi cognitivi. Il deficit di competenza linguistica a cui immediatamente si può pensare riguarda principalmente chi è arrivato per ricongiungimento.
I dati statistici ci rivelano però che questa componente del problema è in via di superamento: oltre i due terzi degli alunni stranieri (il 67,5%) sono infatti nati in Italia, e con poche eccezioni, hanno compiuto tutto il loro percorso di crescita, socializzazione e istruzione in Italia. La percentuale è all’83,1% nella scuola dell’infanzia, al 73,6% nella scuola primaria, al 66,9% nella scuola secondaria di primo grado (Dossier immigrazione 2023). Gli alunni ricongiunti prevalgono ormai soltanto, e di poco, nella secondaria di secondo grado (48,3% in nati in Italia).
La netta maggioranza degli alunni “stranieri” è di fatto culturalmente e linguisticamente italiana, sebbene possa trascinare qualche difficoltà per il fatto di parlare in famiglia un italiano non troppo raffinato. I risultati scolastici confermano una collocazione degli alunni nati in Italia su livelli più alti della controparte arrivata dopo la nascita, e più prossimi a quelli degli alunni di nazionalità italiana. Per esempio, il 36,4% tra gli stranieri nati in Italia e iscritti alle scuole superiori frequenta un liceo. Bisognerebbe aggiungere: le ragazze vanno meglio dei maschi, come e più che fra gli studenti italiani, a conferma del fatto che limitarsi alla dicotomia italiani/stranieri non aiuta molto né a comprendere né a risolvere il problema.
Anche le risposte annunciate peccano di semplificazione. La concentrazione di alunni “stranieri” in certe classi o istituti non è una loro scelta: deriva dalle forme d’insediamento sul territorio, ossia dal trovare casa in certi quartieri o paesi, dalla fuga delle famiglie italiane da quelle scuole (il cosiddetto “white flight”), dalle scelte dei responsabili scolastici che cercano di tenere bassa la quota di alunni di origine immigrata spingendo le famiglie a iscriverli nelle scuole più sensibili e attrezzate per accoglierli. Se va bene, fissare un’eventuale soglia quantitativa al 20% potrà incidere un po’ sul terzo fattore, non sui primi due.
Ciò che invece servirebbe davvero sarebbero investimenti sull’accompagnamento educativo, sul rinforzo dell’apprendimento linguistico, sulla compensazione di altre eventuali lacune, senza trascurare gli alunni italiani con bisogni simili. Servono più insegnanti specializzati e più mediatori culturali, anche per raggiungere le famiglie. Servono più risorse per l’educazione extrascolastica, fornita da quella fitta rete d’iniziative, a base volontaria e parrocchiale, che da anni lavora per compensare le difficoltà scolastiche di alunni italiani e stranieri e per favorirne la socializzazione in luoghi idonei e protetti. Il futuro delle nuove generazioni multietniche è il futuro del Paese, la scuola è la fabbrica di questo futuro. Merita un’attenzione che si traduca in investimenti effettivi, non scorciatoie a basso costo destinate a rivelarsi illusorie.