di Beppe Bovo   

Stimolato dall’articolo di Mao Valpiana “Che cos'è (e cosa non è) la nonviolenza. Teoria, valori e pratiche” e dal dibattito che ne è scaturito nella redazione, ho voluto approfondire il tema della nonviolenza, per una esigenza soprattutto e prima di tutto personale: è un tema che mi mi spinge a interrogarmi. Avendo poi deciso di renderlo in qualche modo pubblico mi sembra opportuno partire dal terreno comune di confronto costituito appunto dall’articolo appena citato di Valpiana senza dubbio un’autorità sul tema proprio perché presidente del Movimento Nonviolento italiano.

Alcune osservazioni schematiche sul suo articolo: 

  • La definizione, necessariamente sommaria ma utile per avviare una discussione, della “nonviolenza come una forza morale che si contrappone alla violenza delle armi [..,.] non solo come via di salvezza personale, ma anche come strategia di liberazione collettiva”, mi trova d’accordo in quanto via di salvezza personale. Sarei perplesso sul fatto che riesca essere anche una strategia di liberazione collettiva. Più avanti riprenderò il discorso.
  • Trovo interessante e del tutto condivisibile la necessità di una filosofia nonviolenta che spinga e aiuti tutti ad “attrezzarsi a sviluppare idee e proposte forti, capaci di aiutare anche la prevenzione, non solo la cura di crisi e conflitti”. Concordo in pieno sul fatto che mentre “alle fallimentari esperienze storiche dei blocchi militari contrapposti sono stati concessi decenni di “prova”, [non si possa chiedere] alla nonviolenza […] risultati immediati e la si bocci se non offre soluzioni miracolose.”
  • Sulla “sintetica ed efficace definizione di Pietro Pinna credo anch’io, come afferma lo stesso Pinna in via preliminare, che “per parlarne con profitto occorra avere ben chiaro e distinto il significato delle parole su cui si discute”. Sono questioni troppo serie per rischiare di parlarne fraintendendosi. Pure al nostro interno una chiara declaratio terminorum, credo sia indispensabile (cos’è nonviolenza e violenza e odio e guerra e pace e repressione e conflitto, ecc.). Magari non sempre né in toto condivisa ma chiara anche nelle differenziazioni.
  • A parte alcuni confronti storici che mi sembrano molto arrischiati (Francesco d’Assisi - Gandhi, distanti uno dall’altro otto secoli di guerre, di politiche, di filosofie e sei mila Km di abitudini, di linguaggi, di tradizioni…) mi permetto di chiosare su alcune affermazioni e cioè:
  • “Gandhi […] nel 1938 propone alle nazioni occupate da Hitler di ottenere la vittoria con la resistenza nonviolenta affermando: ‘L’Europa eviterebbe lo spargimento di fiumi di sangue innocente e l’orgia di odio a cui oggi assistiamo’". Il primo risultato (lo spargimento di fiumi di sangue) sarebbe stato forse ottenuto, ma supporre che una vittoria di Hitler avrebbe evitato all’Europa un’orgia di odio inferiore a quella che Gandhi vede nell’Europa del suo tempo lo trovo del tutto azzardato e direi pressapochistico. Pensare che un’Europa in mano a Hitler avrebbe creato una situazione civile ed etica migliore di quella creata da una guerra pure tremenda e sanguinosissima scatenata proprio contro “quell’orgia di odio” e che ha gettato le basi per una pace assolutamente inedita e benedetta tra una serie di stati di una parte significa del mondo che per secoli e secoli si erano combattuti (non certo pace mondiale ma del resto anche Gandhi parla di Europa). 

Ovviamente, se mi fermassi a queste precisazioni la mia riflessione non andrebbe molto lontano.

In questi giorni, per ragionare tra me e me su questi temi l’ho presa larga e sono andato a rileggere l’Elettra di Sofocle e poi l’Antigone e ancora Le troiane di Euripide. Poi ho fatto un salto mortale triplo per arrivare ai Diari di Etty Hillesum, a Resistenza e resa di Dietrich Bonhoeffer e ancora a L’Iliade o il poema della forza” (oltre che Ma perché bisogna fare la guerra?) di Simone Weil. Di riflessioni ne sono scaturite tante e per me, spesso, molto utili. A partire dalla “scoperta” – come di dice – dell'acqua calda e cioè che il tremendo dilemma, pieno di tragedia e di tormento, violenza o antiviolenza o ancora nonviolenza, scontro armato o confronto non armato è un vecchio, vecchissimo assillo. Anzi, per il nostro breve tempo di presenza su questa terra, eterno (a proposito sono andato a rileggermi anche i pochi versetti che il Genesi dedica a Caino a Abele).

Da tutte queste letture estrapolo e “racconto” due passi.

Il primo dall’Elettra. Elettra, figlia di Agamennone che ha guidato i greci alla guerra di Troia, sempre più convinta che la soluzione giusta alla sua intricata e dolorosissima situazione individuale e famigliare sia quella di ammazzare Egisto (cioè chi ha ucciso suo padre e sposato sua madre) e la stessa sua madre, cinica e infedele, confessa la sua intenzione alla sorella Crisotemide e le chiede di aiutarla nell’impresa.
Fatta questa confidenza entra subito in scena il Coro (la voce del buon senso quotidiano) che, invitando le due ragazze a ponderare bene la situazione, afferma: “In tali circostanze è necessario che chi parla e chi ascolta siano ambedue prudenti”. Del resto il Coro stesso, vedendo poi l’andamento dei ragionamenti delle due sorelle, ripeterà poco più avanti la raccomandazione: “Nella vita i beni più preziosi sono la prudenza e la mente saggia”. Come a dire: c’è il fato, ci sono gli dei favorevoli e avversi e ancora le forze oscure del destino ma comunque, in questo labirinto che è la vita, niente ci esime dall’essere prudenti e saggi. A volte, basterebbe questo per affrontare nel modo giusto molte nostre situazioni. Del resto possiamo in questi consigli sentirci adombrati già alcuni dei principi elencati da Pietro Pinna (citato da Valpiana): disponibilità al compromesso su questioni non di principio; gradualità nell’impiego dei mezzi di azione? A me sembra di sì.
Crisotemide non è convinta della bontà della proposta che le fa Elettra: siamo donne e dunque deboli, possiamo fallire e andare incontro alla morte. Riflessione scontata, si dirà, ma aggiunge: “la morte in sé non è il male peggiore, ma lo diventa quando la invochiamo per qualcun altro dal profondo dell’anima” quando cioè ci innamoriamo dell’idea della morte, quando l’odio ci porta a desiderare la morte dell’altro. Noi uccideremmo perché odiamo e questo è deprecabile. Sembra dire: si può anche dare la morte essendone costretti, senza per questo odiare. Credo che su questo nodo, propostoci dall’acutezza femminile, dovremmo riflettere.
Il dialogo tra le due sorelle continua (cito a sprazzi):
Crisotemide incalza Elettra: “Le imprese infauste hanno un esito sempre negativo…” e, poco più sotto, chiede angosciata alla sorella “Perché ti rifiuti di capire?”
Elettra alcune battute dopo la rimprovera “Parli bene ma non vedi giusto”.
E di rimando Crisotemide: “Anche le cose giuste possono nuocere”.
Insomma, siamo nel pieno della tragedia e del tormento della psiche e dell’animo: le due sorelle, dal loro punto di vista, hanno ambedue una parte di ragione, e fino alla fine sarà così per ognuna e per Sofocle e per i greci ai quali Sofocle si rivolge e credo anche per quanti nei secoli a venire hanno letto e leggeranno Sofocle e seguiranno con la ragione e il sentimento le due sorelle di fronte al loro destino.
La violenza sembra un destino dal quale l’uomo non riuscirà mai a liberarsi e però l’uomo è uomo nella misura in cui non sottostà alla violenza e non si fa avvelenare l’anima dall’odio.

Salto ai giorni nostri, settembre 1942, e vengo a un’ebrea che ha già intuito quale fine è riservata agli ebrei dall’odio nazista, e discute con un suo amico, sindacalista socialista, convinto che occorra armarsi e contrastare così i nazisti invasori dell’Olanda. Lei è Etty Hillesum, lui è Klass Smelik e questo scrive Etty nel suo diario quasi continuando a dialogare con Klaas: 

“Klaas, non si combina niente con l’odio, la realtà è ben diversa da come ce la costruiamo noi. Prendi quel nostro assistente. Lo vedo spesso nei miei pensieri. … Odia i suoi persecutori con odio che suppongo sia giustificato. Ma anche lui è un uomo crudele. Sarebbe un perfetto capo di un campo di concentramento. […].
Vedi, Klaas: quell’uomo era pieno di odio per quelli che potremmo chiamare i nostri carnefici, ma anche lui sarebbe potuto essere un perfetto carnefice e persecutore di uomini indifesi. Eppure mi faceva tanta pena. Riesci a capirci qualcosa? […].
Klaas, volevo solo dire questo: abbiamo ancora così tanto da fare con noi stessi, che non dovremmo neppure arrivare al punto di odiare i nostri cosiddetti nemici. Siamo ancora abbastanza nemici fra noi. E non ho neppure finito quando dico che anche fra noi esistono carnefici e persone malvagie. In fondo io non credo affatto nelle cosiddette “persone malvagie”. Vorrei poter raggiungere le paure di quell’uomo e scoprirne la causa, vorrei ricacciarlo nei suoi territori interiori, Klaas, è l’unica cosa che possiamo fare di questi tempi.
Allora Klaas ha fatto un gesto stanco e scoraggiato e ha detto: ma quel che vuoi tu richiede tanto tempo, e ce l’abbiamo forse?
Ho risposto: ma a quel che vuoi tu si lavora da duemila anni della nostra era cristiana, senza contare le molte migliaia di anni in cui esisteva già un’umanità – e che cosa pensi del risultato, se la domanda è lecita? […].
E’ proprio l’unica possibilità che abbiamo, Klaas, non vedo altre alternative, ognuno di noi deve raccogliersi e distruggere in se stesso ciò per cui ritiene di dover distruggere gli altri. E convinciamoci che ogni atomo di odio che aggiungiamo al mondo lo rende ancor più inospitale”.

Questa pagina, che direi quasi commovente, impressiona per la forza e per il contesto in cui nasce l’accento che Hillesum pone sulla nostra costitutiva ambivalenza di carnefici e vittime, di violenti e pacifici. Ad ogni giorno ma direi quasi in ogni ora siamo chiamati a raccoglierci in noi stessi a raggiungere le nostre paure e a distruggere in noi stessi quello per cui vorremmo “distruggere” gli altri, a valutare e a scegliere se seminare dissapori, contrasti, e magari anche odio o se trattenerli dentro di noi, bloccarli per rendere meno inospitale il nostro piccolo o grande mondo in cui ci muoviamo. Una filosofia nonviolenta che aiuta e sostiene e spinge al dialogo, alla relativizzazione di ogni nostra posizione, a essere costruttivi evitando soluzioni precostituite ma piuttosto ponderate, ben calibrate sulla situazione concreta in cui di volta in volta ci si trova ad affrontare il rapporto con gli altri è sicuramente un aiuto forte a una convivenza pacifica. Operazione complicata che richiede impegno costante e capillare e però anche tempi incerti e comunque lunghi. 
Ed è su tutta questa incertezza che prende corpo la preoccupazione di Klaas e che rivela una richiesta di protezione e di sicurezza nel qui e ora, individuale e collettiva, che non può essere elusa, in alcun modo e da nessuno. E certo, anche un atteggiamento positivo come quello nonviolento non può non farsene carico in modo serio se vuole presentarsi credibile.
Etty Hillesum un anno dopo quel colloquio, a 29 anni, finì la sua vita in una camera a gas ed è oggi un esempio e un incoraggiamento a essere forti, ad avere coraggio, a praticare una sconfinata, estrema compassione. Negli stessi giorni e anni altri giovani come lei percorrevano spaventosi campi di battaglia perdendovi spesso la vita, straziati dalle bombe e dall’odio degli stessi carnefici di Etty. Quei giovani, al netto di ogni retorica, hanno combattuto non mossi dall’odio ma per fermare un regime che aveva nella violenza e nell’odio una dei suoi principi fondanti. La loro lotta ha creato un’Europa rispettosa e dialogante e ha messo noi nelle condizioni di elaborare e articolare e sperimentare pensieri quali quello della nonviolenza su cui stiamo ragionando ora. Ha regalato all’ordina mondiale istituzioni come l’ONU e a noi la nostra Costituzione. Non mi sembra poco!
Posso dire che proprio quei ragazzi e proprio quella ragazza olandese sono stati ambedue “necessari” (parola tremenda e da pronunciare in ginocchio) per ricordare a noi, di dura cervice, la necessità di un lavoro dentro e fuori di sé perché è necessario imparare a controllare e vincere individualmente e collettivamente la violenza e d’altra parte per ricordarci che la nostra fragilità e ambivalenza può portare alla violenza e all’aggressione distruttiva contro i nostri simili e contro quanto è stato costruito di buono per tutti? E posso ancora dire che per contrastare i violenti dobbiamo essere pronti a difenderci e rispondere con ogni mezzo adeguato? Non per odio verso di loro ma per amore di noi stessi e del mondo che abbiamo popolato e abitiamo.

So che tocco un tasto delicato capace di suscitare discussioni e divergenze anche accese ma credo che il movimento nonviolento assieme a tutti quelli che hanno a cuore le sorti di questa tormentata umanità si debbano porre di fronte a questo nodo con realismo e sincerità ogniqualvolta (ed è molto spesso) scoppiano situazioni concrete di aggressioni e/o violenze. Molto spesso ci troviamo difronte situazioni davvero complesse e intricate tanto da essere per niente incasellabili dentro schemi e principi ben costruiti e pensati in linea teorica. Sto pensando, con tormento e angoscia, alla situazione che abbiamo davanti oggi a Gaza, in attesa dell’attacco armato minacciato da Israele a Rafah, ultima cittadina rimasta intatta nella Striscia. Mi chiedo: è credibile proporre di andare da Netanyahu e dai capopartito che sostengono il suo governo a fare discorsi nonviolenti secondo i principi elencati da Valpiana? (Anche Francesco di Assisi che ai suoi tempi è andato dal Sultano si troverebbe in grosse difficoltà.) E d’altra parte, anche un eventuale sostenitore della necessità di rispondere alla forza con la forza non può non sentirsi fuori gioco: un simile reazione raddoppierebbe, triplicherebbe la carneficina di civili inermi a cui stiamo assistendo senza arrivare a un qualche risultato in grado di aprire una prospettiva di soluzione del problema. 

Una terza via potrebbe forse essere rappresentata dalla vecchia, buona Politica che non è nonviolenza e non è puro rapporto di forza? Ammesso che ci sia oggi qualcuno in grado, per preparazione e credibilità, di portarla avanti.

Detto tutto questo, poiché sono partito dal Movimento Nonviolento, magari contrariamene da quanto possa apparire dopo alcuni miei ragionamenti, ritengo la prospettiva del Movimento preziosa perché ci porta a credere, spesso contra spem, nel dialogo e nel rispetto sempre e comunque dell’altro, nella necessità di lavorare per creare coscienza e sensibilità nonviolenta, nell’individuare strade per tradurre questi principi in azioni concrete.
A me sembra che la violenza abbia tormentato l’uomo anche più dell’amore. Ed è necessario chiederci: si può liberare l’uomo dalla violenza?
Mi piacerebbe poter rispondere di sì. Forse qualcuno riesce a rispondere di sì e quasi lo invidio. Quello che possiamo (e dobbiamo) fare tutti, convinti o meno che si realizzi un giorno un mondo nonviolento, è imparare a frenare la violenza, controllarla, contrastarla, anche deviarla, non subirla né esserne sovrastati. E allora che sia il benvenuto chiunque ci aiuta in questa impresa già di per sé ardua e dagli esiti pratici tutt’altro che scontati ma che sicuramente ci sostiene nel mantenere viva, in questi tempi bui (peraltro meno bui di altri percorsi da nostri fratelli vissuti in tempi e luoghi diversi dai nostri) la nostra humanitas che corre il rischio, ogni giorno di più, di venire soffocata.
E alla quale non possiamo rinunciare.