Pubblichiamo l'articolo di Nicoletta Dentico - Responsabile del programma Salute Globale, Society for international Devolpment (SID) - già uscito in il Manifesto del 6 maggio 2023.
Il direttore generale dell’Organizzazione Mondiale della Sanità (Oms) ha appena dichiarato la fine della pandemia da Covid-19. L’annuncio, da molti atteso, impone di nuovo una severa riflessione sul come ne siamo usciti, sul mondo dopo tre anni di pandemia, sul futuro che ci attende. Quello che possiamo subito dire, dopo gli anni sull’abisso dell’emergenza, è che i fondi per la salute pubblica sono tornati decisamente a diminuire su scala globale.
La scintilla di priorità che era stata assegnata al rafforzamento dei sistemi sanitari per tutti, con irrobustimento del personale medico e paramedico da far lavorare in condizioni di dignità, e con i nuovi approcci di formazione emersi con Covid, si è spenta in un baleno. I sistemi sanitari pubblici sono letteralmente al collasso. L’Italia del Pnrr non fa eccezione, malgrado la quantità di fondi che le sono stati assegnati. Intanto la sola crescita lasciata in eredità al mondo dalla pandemia è quella della miseria – 70 milioni di poveri in più nel solo 2020, 600 milioni di persone che vivono con meno di 2,15 dollari al giorno secondo le attuali proiezioni – e di un debito totale dei paesi in via di sviluppo vertiginoso. Ha raggiunto il 256% del Pil nel 2020. I dati tratteggiano in fitta sequenza la diagnosi dell’ultimo rapporto della Banca Mondiale, Evolution Roadmap, il documento con cui intende rimettere a fuoco la propria missione per disinnescare la bomba a orologeria di povertà, fragilità, conflitti e violenza: ingredienti esplosivi a rischio moltiplicazione per via dei cambiamenti climatici.
Il quadro poco rassicurante ci racconta di pandemie da cui non siamo usciti affatto. In questo scenario, Politico aveva riportato alcuni giorni fa quanto anticipato alla testata dal commissario Ue per il mercato unico, Thierry Breton, in merito al cosiddetto Act in Support of Ammunition Production (ASAP), un piano di 500 milioni di euro per incrementare la produzione di armi con i fondi europei e migliorare la capacità di difesa del blocco. Nel colloquio con Politico, il commissario aveva previsto un incremento della capacità produttiva europea in ragione di un milione di ordigni in più all’anno, chiosando che «oltre al bilancio diretto, stiamo anche liberando finanziamenti dai fondi di coesione e dai fondi del Recovery and Resilience Facility». Un nuovo contributo alla militarizzazione dell’economia, nel solo settore industriale che insieme al farmaceutico ha vissuto lo stato di eccezione durante Covid-19. Dal Welfare al Warfare, insomma.
I nuovi paradigmi della sicurezza globale, la parola chiave destinata a configurare in forme sempre più tecnologiche e inafferrabili gli scenari post-pandemici, blindano difesa e produzione farmaceutica in una botte di ferro per il futuro.
La notizia è stata smentita ieri pomeriggio da Palazzo Chigi, preso in contropiede dalle parole di Breton. Il governo ha precisato che l’Italia non intende utilizzare i fondi del Pnrr per produrre armi, ma ha tenuto a ribadire il suo appoggio al rafforzamento della capacità dell’industria della difesa europea, nell’ottica di una maggiore autonomia strategica della Ue. Al netto della smentita, non c’è di che preoccuparsi, verrebbe da dire. L’industria bellica gode di ottima salute in tutto il mondo, e la posizione europea si è irrobustita negli anni della pandemia. L’ultimo rapporto dello Stockholm international peace research institute (Sipri) segnala che l’Europa ha registrato l’incremento più consistente degli ultimi tre decenni, con un +13% rispetto al 2021, e una spesa di 436,7 miliardi.
Rilevanti aumenti di spesa sono in Finlandia (+36%), Lituania (+27%), Svezia e Olanda (+12%), Belgio (13%) e Polonia (+11%), Danimarca (8,8%), Italia (+13%) e Spagna (8,6%). Il Sipri inoltre ribadisce dati di tendenza emersi già nel 2020, pur se sottaciuti nei paesi occidentali. Il 78,2% della produzione mondiale di armi, sistemi d’arma e fornitura di servizi militari è sotto il controllo di multinazionali dei paesi Nato ed alleati. Non solo: la internazionalizzazione della filiera industriale militare è quasi totalmente gestita dalle stesse imprese multinazionali americane ed europee, esito di una strategia intesa da un lato a ridurre i costi e i posti di lavoro, dall’altro a saldare sede del paese della casa madre con i paesi in cui vengono trasferiti segmenti della produzione.
Il 9 maggio, l’assemblea degli azionisti del gruppo Leonardo spa porterà alla luce il progressivo abbandono del comparto civile da parte dell’azienda. I dati verranno dal meticoloso lavoro di azionariato critico che vede la Fondazione Finanza Etica (Gruppo Banca Etica) e la Rete Italiana Pace e Disarmo protagoniste assolute. L’impresa italiana, controllata al 30,2% dallo Stato, ha deciso che quest’anno la sua assemblea sarà a porte chiuse. Deve essere anche questo un segno della fase post pandemia.