1. Il cristiano di fronte al male nella storia o meglio dentro il male. Riprendendo Bonhoeffer, che considera l’incarnazione come legge della storia, il cristiano sa che qualsiasi azione compia rimane nel peccato. Nella storia non si pone l’alternativa astratta tra il Bene assoluto e il Male assoluto. Qualsiasi azione facciamo per compiere il bene si rimane nella situazione di peccato: comporta assumere il rischio della scelta personale nella situazione concreta con la fede nella misericordia di Cristo che ha preso su di sé il peccato e lo ha vinto. Compiere una azione che si ritiene necessaria per raggiungere un bene, come uccidere il tiranno o partecipare alla guerra per la libertà del proprio popolo, è quindi contemporaneamente bene e male, giusto e peccato. Se è così, è una contraddizione interna alla coscienza personale del cristiano ma ha anche significati per la Chiesa e per l’etica umana collettiva?
Più che di contraddizione – termine che evoca uno scenario di tensione tra due polarità – parlerei di complessità e dunque di intrecci.
Il mondo è cum-plexus, cioè è fatto di interconnessioni strutturali. Questo emerge anche sul piano etico, dove effettivamente non esiste un bene puro, assoluto, incontaminato, perfettamente compiuto. Il grano cresce insieme alla zizzania, per usare un’immagine evangelica, e ogni gesto che punta alla loro separazione rischia di danneggiare il buono che va maturando. Non possiamo sottrarci a questa complessità, ma ci è chiesto di abitarla con uno sbilanciamento sul bene possibile, con un’inclinazione del corpo verso quel margine della strada dove il Samaritano si ferma a soccorrere l’uomo ferito e mezzo morto. Questo sbilanciamento che interrompe il cammino non nega il nostro limite, la nostra fallibilità e nemmeno i nostri continui fallimenti, ma testimonia di un varco sempre possibile grazie alle promesse di Dio. È lo stesso Bonhoeffer a ricordarci che la verità deve realizzarsi nell’azione e che per questo occorre liberarsi dalla paura della morte e dei nostri peccati:
«Si vantano la morte e il peccato, incutendo timore all’uomo, come se fossero loro i signori del mondo, ma è solo apparenza. È da tempo che hanno perduto il loro potere: è il Salvatore che glielo ha sottratto. Da allora nessun essere umano che rimanga accanto a Lui deve temere questi oscuri padroni. Il pungiglione con cui la morte ci colpisce non ha più nessun potere. Ma allora, ci chiediamo, perché nella nostra vita non sembra che sia davvero così, perché vediamo così pochi segni di questa vittoria? Perché il peccato e la morte incombono su di noi? È la stessa domanda che Dio ci pone: io ho fatto tutto questo per voi e voi vivete come se non fosse accaduto! Vi sottomettete alla paura, come se poteste ancora farlo! Perché la vittoria non è visibile nella vostra esistenza?»
(D. Bonhoeffer, La fragilità del male)
2. Esistono criteri per il discernimento in modo da evitare i pericoli di aderire al male preso come necessario al bene (appunto la guerra ma anche ad es. il fascismo considerato “ provvidenziale” alla Chiesa) o di subire passivamente (stare a guardare)? Con stupore ho letto il dibattito, anche tra cattolici, tutto astratto, sui principi: liceità della legittima difesa o no, sui valori assoluti in contrasto (come Mancuso e altri: il valore della libertà vale di più di quello della vita, mettendo assieme suicidio assistito e legittima difesa, piano individuale e collettivo). Ma esistono valori “assoluti” nella storia, sciolti cioè dai legame tra loro e dalle relazioni con le concrete situazioni storiche, con la complessità degli interessi e dei poteri in gioco? Si devono cercare dei criteri utili nella concretezza per rendere componibili i valori e per la migliore soluzione possibile con il minor danno possibile, con attenzione alle vittime? Non occorre cercare le possibili azioni di prevenzione del male?
Discernimento è un’altra parola importante: si tratta di avviare processi in cui, insieme, cerchiamo di leggere la storia alla luce dello Spirito quale energia di fioritura dell’essere, con la quale ci è richiesta un’alleanza simbolica e pratica. In risonanza con questa dimensione dinamica, allora, possiamo scoprire una creazione segnata da una promessa buona da sempre inscritta nell’origine, a sostegno del presente, in apertura del futuro. Emerge così una rete di parole, significati, pratiche e contesti in cui il male non viene più descritto come inevitabile, necessario, comune e si può resistere meglio anche alla tentazione della rassegnazione e della passività che sa solo aspettare. Nella fedeltà alla storia, richiesta da ogni discernimento che funzioni, non c’è spazio per criteri astratti e guadagnati a priori, per principi disincarnati o per valori sciolti dalle vite. Anche quando si discute di guerra e pace, di nascita e morte, di desideri e di leggi, è fondamentale ricordarsi che ci sono vite concrete in gioco e che spesso il discorso si gioca sulla pelle di chi non ha voce e patisce il potere altrui. In questo senso, l’azione di cura del mondo passa anche per una lettura critica dei contesti che, in modo intenzionale o inconsapevole, si fanno complici della violenza anche solo con le parole dette o taciute.
3. Se è vero che è illusorio pensare possibile la vittoria in tempi brevi degli istinti collettivi alla violenza e alla crudeltà dell’umanità, la rassegnazione è l’unica soluzione? Non c’è una grave responsabilità in particolare delle comunità cristiane e del Magistero della Chiesa per aver agito in senso contrario trascurando totalmente l’educazione ad essere operatori di pace?
Sì, stiamo facendo i conti con una grave crisi sul piano della formazione. Formazione – Bildung – è parola che ci ricorda come le “forme” di una vita non sono mai decise a priori e non si trovino già scritte come nostro destino nemmeno nella mente di Dio. In questo senso dobbiamo porci il problema delle tras-formazioni urgenti per prendere finalmente atto dell’incompiutezza della nostra nascita ma anche e soprattutto per creare le condizioni affinché nessuna vita venga sacrificata o si senta fuori posto nel mondo. Il cristianesimo, in quanto religione nutrita dalla Pasqua e plasmata da tutte le categorie di rinascita che vi si legano, ha qui una particolare responsabilità da esercitare in negativo, come critica e rimozione di tutto ciò che ostacola il fiorire della creazione, e, in positivo, come rinforzo di tutto ciò che potenzia la cristificazione del mondo. La cristificazione del mondo, meglio ricordarlo, non è la conquista di una religione, ma l’effetto di quel Dio che non solo dona vita ai morti ma che anche «chiama all’esistenza le cose che ancora non esistono» (Rm 4,17).
4. La dimensione escatologica con cui il cristiano vive nella storia relativizza quindi i Valori. In questa ottica non si può mai pensare a uno “scontro di civiltà”, tra due mondi incarnazione del Bene e del Male, ma si deve fare attenzione critica al male che è presente prima di tutto in se stesso e nella propria “parte” e puntare sul bene esistente nel “nemico”, che non è mai un mondo monolitico. Non è questa una posizione realistica che viene propria dalla dimensione escatologica che evita i modi fideistici e ideologici, ma indica la necessità dell’analisi delle situazioni?
Sì, sono d’accordo. Ce ne ha dato una straordinaria testimonianza nel suo Diario Etty Hillesum, giovane ebrea olandese morta ad Auschwitz, che inizia a scrivere della propria paura di vivere e che alla fine ci sconvolge con il suo desiderio di essere un balsamo per le molte ferite che le circostanze le hanno fatto patire e incontrare. Nella lucidità che la contraddistingueva, Etty ricorda come sia impossibile cambiare o riparare il mondo senza passare per la propria interiorità: anche quando è pienamente giustificato, «ogni atomo di odio che si aggiunge al mondo lo rende ancora più inospitale». Sembra poi aver scritto parole purtroppo ancora molto attuali:
Il marciume che c’è negli altri c’è anche in noi, continuavo a predicare; e non vedo nessun’altra soluzione, veramente non ne vedo nessun’altra, che quella di raccoglierci in noi stessi e di strappare via il nostro marciume, non credo più che si possa migliorare qualcosa nel mondo esterno senza aver prima fatto la nostra parte dentro di noi. È l’unica lezione di questa guerra: dobbiamo cercare in noi stessi e non altrove (19 febbraio 1942).
Un’ottica di complessità, certamente, sa che questo compito di cura della propria interiorità si dà insieme alla cura del mondo, perché lo Spirito lavora verso la profondità del dentro e verso l’eccentricità e la vastità del fuori: è la «mistica degli occhi aperti» di cui ci parla Metz, o la mistica politica di cui ci parlano le teologie e le filosofie femministe.