di Paolo Naso
Si discute di crisi della globalizzazione. E’ una tesi che condivido e che ci dovrebbe indurre a ripensare questo grande processo economico e politico che ha caratterizzano gli ultimi decenni. La delega di poteri propri degli stati a organismi sovranazionali sua origine, l’apertura dei mercati, il superamento dei blocchi militari hanno segnato un tempo che, idealmente, possiamo fissare tra la nascita delle Nazioni Unite e la crisi dei mercati finanziari che ha raggiunto la sua acme nel 2008. In questo lungo lasso di tempo la globalizzazione è stata celebrata e persino idolatrata come il processo che avrebbe ridotto le conflittualità, allargato i confini e promosso i diritti umani.
Poi ci siamo accorti che le cose andavano diversamente e che, se le merci erano libere di circolare, questo produceva un terribile impatto ambientale che sradicava colture e culture, che produceva inquinamento e generava nuovo sfruttamento. Quanto ai diritti, non solo non venivano globalizzati ma, addirittura, si adottavano provvedimenti che limitavano la circolazione degli individui e finivano per negare il diritto alla protezione persino ai richiedenti asilo. Oggi la crisi della globalizzazione si esprime anche in nazionalismi e sovranismi che celebrano le identità nazionali in contrapposizione a quelle sovranazionali; lo specifico etnico e religioso in contrapposizione all'universalità dei diritti e dei doveri; gli interessi di piccole patrie in contrapposizione a quelli più generali. Giusto, quindi, assumere e denunciare la crisi della globalizzazione.
Questa crisi si esprime con evidente durezza nelle politiche migratori degli Stati, compresi quelli della UE. In altre occasioni abbiamo parlato dei corridoi umanitari attivati per iniziativa delle chiese evangeliche e della Comunità di Sant’Egidio. Senza enfasi, dobbiamo dire che ad oggi hanno costituito l’esempio più razionale e avanzati di migration management, e cioè di gestione legale di flussi migratori. L’insostenibile paradosso sta nel fatto che questa iniziativa non è stata né ideata né implementata dalle istituzioni – nazionali o sovranazionali – ma dalla società civile e, più specificatamente, da due comunità di fede. Oggi, in sede europea e anche nelle muscolari dichiarazioni del nuovo governo Meloni, si parla di “vie legali e sicure” per garantire migrazioni ordinate e sicure. E che altro sono stati i corridoi umanitari? Il paradosso sta nel fatto che, ad oggi, restano una best practice e non ancora una policy, una bella iniziativa ma non ancora una misura permanente e strutturale dell’azione di governo della UE o dell’Italia.
I corridoi sono stati una grande avventura umanitaria, che negli anni, ci ha messo di fronte al nostro prossimo nei campi profughi in libano, nei lager della Libia; che ci ha fatto incontrare ragazze desiderose di vita in Afghanistan; uomini e donne in fuga che hanno trovato un temporaneo rifugio in Pakistan, in Grecia, in Etiopia.
Oggi possiamo riconoscere che questa è stata anche un’avventura della fede. Con il diritto europeo in una mano e la Bibbia dall’altra, abbiamo cercato di aprire vie sicure e legali per profughi che le leggi internazionali e la coscienza cristiana ci impongono di proteggere e di tutelare.
E così è accaduto il miracolo: di fronte alle parole vuote della politica o a proposte irragionevoli e immorali di muri o di blocchi navali, i corridoi umanitari hanno costituito un’azione concreta ed efficace che ha consentito a migliaia di persone di riprendersi la loro vita. In questi anni mi è capitato spesso d parlare dei Corridoi umanitari in riferimento a dei passi biblici: uno, ovviamente, è quello del samaritano che, camminando lungo la strada, vede un uomo ferito e si ferma a soccorrerlo, a dispetto dell’indifferenza generale, delle regole religiose e delle convezioni sociali.
L’altro è quello della resurrezione di Lazzaro. In questi anni abbiamo incontrato migliaia di vite spezzate, vite che si spegnevano nella disperazione, nella tragedia della guerra o nel dolore delle persecuzioni. I corridoi umanitari hanno riacceso la vita in persone che morivano, hanno ridato fiato, sangue, muscoli a corpi esanimi. In questo senso, sono stati una predicazione ecumenica nello spazio politico europeo: il nostro modo di dire che le leggi sull’immigrazione sono sbagliate e che devono essere cambiate. Una predicazione ecumenica ma anche un’azione laicamente politica, tesa a costruire lobby, a cercare consensi e sostegni in sede europea.
L’altro tema che evidenzia la crisi della globalizzazione è la guerra, questa guerra che ancora una volta si combatte in Europa. La globalizzazione ha promesso qualcosa che non ha mantenuto: un ordine internazionale che, orientato alla sovranazionalità e proteso al massimo sviluppo economico, avrebbe garantito la pace. Non è andata così e, di nuovo, siamo di fronte alla più classica delle guerre. Ovvio che come cristiani reagiamo invocando la pace. Tutto appare più complicato. Mentre preghiamo perché tacciano le armi e ci mobilitiamo perché questo avvenga al più presto, infatti, sentiamo di avere di fronte anche un altro problema e un’altra sfida: la resistenza al male. Il male di un’invasione militare illegittima sotto ogni punto di vista; il male di una violenza militare che non risparmia neanche i bambini e i civili; il male di un’evoluzione del conflitto che ancora oggi esclude la via del negoziato e del compromesso diplomatico.
Invocare la pace è giusto e doveroso, così come pregare per la pace e mobilitarsi per la pace. Eppure, dopo mesi di bombe cadute sulle città martire dell’Ucraina, da Mariupol a Zaporizia, sentiamo l’urgenza di un intervento, di una decisione, di una tregua che non arrivano. Il male della guerra sembra destinato a proseguire sine die.
Ma il cristiano non accetta il male. Bonhoeffer non si rassegnava al male totale e assoluto che vede crescere attorno a lui negli anni del nazismo; Martin Luther King non si è rassegnato al male razzista che impregnava la società e la stessa comunità cristiana di cui era pastore; Desmond Tutu non si è piegato al male dell’apartheid e di un sistema di norme che creava gerarchie sociali, economiche e giuridiche basate sul colore della pelle. Ognuno di loro, a suo modo, si è posto il problema del contrasto al male. Ed è questa la sfida che abbiamo di fronte noi oggi. Come accade sulle migrazioni globali, la politica non sembra trovare soluzioni. Né vediamo quel “popolo della pace” che in passato marciava compatto per il disarmo nucleare o per la guerra in Iraq.
Nel tempo della post-politica – uso un’espressione nuova che si sta affermando perché riflette un processo reale - tutto è frammentato e incerto, confuso, fluido, l’unica certezza e che domani ci sarà un altro bombardamento.
Di fronte a questo scempio di umanità, persino la voce dei cristiani è divisa. Le contrapposizioni attraversano anche la nostra comunità di fede. E’ una scandalo, un inciampo drammatico alla credibilità della nostra fedele. E’ per questo è tempo di confessione di peccato e di preghiera.
Ma sappiamo che possiamo fare, che dovremmo fare anche altro.
Mi pongo tre domande.
Riusciamo a dire ecumenicamente, e cioè come cristiani di tutte le tradizioni, che la guerra non può essere benedetta? Che utilizzare il nome di Dio per benedire armi che uccidono e distruggono è contro il disegno di Dio? Non è, questo, un pronunciamento politico sulla guerra, ma soltanto una clausola spirituale che ci impone di guardare alla guerra, sempre e comunque, come un male, il peccato che come uomini e donne ci portiamo addosso.
Riusciamo a dire, ecumenicamente uniti, che la pace deve essere giusta o, semplicemente, non è? La giustizia vale quanto la pace. Come possiamo chiedere o perfino imporre una pace alla quale non corrisponda una quota ragionevole di giustizia? La tutela dei diritti fondamentali, il diritto all’autodeterminazioni di un popolo, la sicurezza all’interno dei propri confini. La storia ha conosciuto molte paci costruite con la forza e la sopraffazione. Non solo non sono durate a lungo ma hanno semplicemente trasformato il fragore delle armi nella violenza degli apparati di sicurezza e di controllo da parte di una dittatura. Pace è giustizia. Giustizia è pace.
Infine, riusciamo a dire insieme che l’utilizzo dell’arma nucleare non può neanche essere contemplata tra le opzioni militari plausibili? Questo vale per la Russia, certamente, ma anche per gli alleati dell’Ucraina, per gli Stati Uniti e per il campo occidentale in cui l’Italia si riconosce. Di fronte allo scenario nucleare, perde ogni senso e ogni logica il riferimento alla teoria della “guerra giusta”, sia pure quella combattuta “per una giusta causa”, secondo l’antica formula scolastica.
Non so se il movimento ecumenico riuscirà a trovare l’unità attorno a queste tre grandi questioni ma è su questi temi che, tra qualche decennio, sarà giudicato e sarà valutata la sua credibilità e la sua coerenza evangelica. Le religioni non sono “naturalmente” vie di pace; al contrario, la storia europea ci dice quanto esse si siano generosamente e convintamente spese per la guerra. Sappiamo però che in certi momenti hanno agito per la pace e che dispongono di un soft power, di un “potere” che non si misura con i carri armati né con i dispositivi di dissuasione o l’ampiezza dei confini. E’ la forza che deriva loro dall’autorevolezza morale, dalla coerenza nel sostegno agli ultimi, dal fatto che milioni di persone, magari contravvenendo alla legge, pregano e lodano Dio, dalla loro capacità di vedere e annunciare un mondo e un futuro che altri non riescono neanche a immaginare.
Negli anni più difficili della guerra in Vietnam e poco prima di morire, in un suo sermone Martin Luther King usò la metafora della “mezzanotte dell’ordine morale”, quando tutto sembra piegato, rassegnato, governato da logiche ciniche e violente. Ma è in questa mezzanotte che si accende e si annuncia la speranza della fede cristiana.