di Aldo Bodrato
Con dolore riceviamo la notizia della morte di Aldo Bodrato, collaboratore prezioso di Esodo: tutti i suoi articoli - prevalentemente biblici - erano di grande interesse e stimolavano non poco la nostra riflessione. Ne siamo colpiti anche se ci aveva annunciato il suo stato precario di salute e il suo progressivo declino. Oggi Aldo vive la sua Pasqua.
Pubblichiamo di seguito l'ultimo articolo scritto da Aldo per la rivista Esodo e pubblicato in Echi di Esodo del numero "E fu sera e fu mattina - la genesi tra fede e scienza (4/2020).
Quando, a settembre, i primi rumor dell’ennesimo conflitto tra la Corte Costituzionale e la Cei sulla riforma delle leggi relative al suicidio assistito, mi hanno spinto a tornare al tema, delicato e cruciale, dell’inscindibile legame che unisce vita e morte, mai avrei pensato che, per ben altre ragioni, nel giro di pochi mesi, tale tema sarebbe diventato di scottante attualità, fin quasi a presentarsi come il “tormentone” di drammatici giorni di generale disorientamento.
Allora, come oggi, la questione si poneva in termini più etici ed esistenziali che teoretici e giuridici. Ma mentre a inizio autunno era in oggetto innanzitutto il diritto dell’individuo a portare a termine, con l’aiuto altrui, la decisione di porre fine alla propria esistenza, diventata tragicamente invivibile, da mezz’inverno in poi questo stesso problema, ma in forma rovesciata, si presenta ormai a noi in una dimensione quasi universale e, in modo tale, da rendere impossibile, anche volendo, evadere l’inevitabilità della scelta.
"O la morte o la vita!”
Proviamo dunque a ri-enunciare la questione in termini generali, senza dilungarci in particolari distinguo, visto che prima o poi necessariamente questi verranno al pettine e che, a oltre quattro mesi dalla comparsa tra noi del coronavirus, siamo stanchi di sentirci ripetere: “Se vuoi mettere te stesso e gli altri a rischio di morte, vivi come hai sempre vissuto. Se invece vuoi rendere possibile a tutti la permanenza in vita, chiuditi in casa ed entra in contatto col mondo dei vivi meno che puoi”.
Non dobbiamo nasconderci che, tanto nel caso, prevalentemente personale, del suicidio assistito, quanto in quello, prevalentemente sociale, del coronavirus, l’alternativa secca “vita-morte” finisce col porsi con la radicalità, qui evidenziata, solo in concomitanza con talune situazioni storiche, sentite come eccezionali. Tipo: una morte cerebrale disgiunta da quella di altri organi del corpo (caso Englaro); un residuo di vita fisico-psichica dolorosa, che si prolunga senza speranza di ripresa (caso Dj Fabo); una pandemia, particolarmente violenta e aggressiva, che mette improvvisamente a rischio la sopravvivenza di intere generazioni e che, in attesa di nuovi metodi di cura, può essere frenata solo a costo di gravi limitazioni alla normale libertà del vivere stesso.
Sia come sia. La prima conseguenza del ritorno, “nei giorni del coronavirus”, alla riflessione sulla co-essenzialità tra l’umana esperienza del vivere e quella del morire, è la definitiva cancellazione della possibilità, tanto cara all’integrismo religioso, di sottrarre all’uomo, per attribuirlo a Dio, il diritto-dovere di deliberare su ogni decisivo snodo del vivere e del morire dell’uomo stesso.
Ancora ieri, infatti, a fronte di singoli casi di ricorso ad alcunché di simile all’eutanasia, era possibile sentire autorevoli portavoce del mondo cattolico sentenziare: “Solo Dio, origine e fine della vita, può deliberare alcunché sulla nascita e sulla morte; l’uomo, che la vita riceve, deve accoglierla e trasmetterla nei modi e nei tempi scelti da Dio stesso, onde non incorrere in inevitabili ed adeguate pene”. Oggi, messi a tu per tu con lo scatenarsi di una specie di nuovo diluvio, capace di cancellare ogni traccia di umana esistenza dalla faccia della terra, accade che la stessa ipotesi dell’esistenza di un Dio che, per punire una grave violazione delle sue leggi da parte degli uomini, ne decreta lo sterminio con “l’acqua”, col “fuoco” o con qualsivoglia altra “piaga d’Egitto”, risulta a tutti, oltre che intollerabile, ridicolmente blasfema.
Dio non è più così
Checché ne pensino i rappresentanti tonsurati dell’Homo religiosus, dunque, se c’è un Dio creatore, che ha a che fare con la vita e con la morte delle sue creature, questo Dio non può più presentarsi come l’Onnipotente, che a se stesso riserva il controllo assoluto sul loro destino. Un Dio, per farsi conoscere e accettare dai suoi come padre-madre, fratello e compagno, non ha altra possibilità che quella di rendersi partecipe del loro cammino mortale e farsi garante di quei legami d’amore che, mettendoli in comunione, ne fa il nucleo di un’unità di molteplici, aperta all’infinito e reciproco compimento.
Più d’uno credo, possa cogliere dietro questa sommaria risemantizzazione teologica di un antico racconto, la trama, ben nota del mito di creazione e salvazione che anima il credo cristiano. Un mito che, attraverso un lungo e costante processo storico e culturale di interpretazioni attualizzanti, non solo ha dato origine a una ricchissima produzione letteraria di variazioni narrative, salmi, inni, rituali, riflessioni sapienziali e sviluppi etici e dottrinali diversi (spesso potenzialmente contradditori), ma ha anche progressivamente evidenziato la tendenza a farsi concreta e storica esperienza umana nella vita di numerosi profeti e sapienti. Il tutto per culminare nell’evento cruciale di una vera e propria somatizzazione del mito stesso; nell’incarnazione della “Parola salvifica” nella vita, passione, morte e resurrezione di Gesù il Cristo.
E con questo eccoci giunti a due passi da una possibile nuova impostazione della nostra riflessione sui rapporti che intercorrono tra quella specifica vita e quella specifica morte, che in quanto esseri mortali e persone, che del proprio vivere e morire si fanno carico, ci appartengono. Una nuova impostazione che, visto l’ambito teologico in cui si sviluppa, si presenta a noi come una nuova ipotesi teologica, ma che, al tempo stesso, rimanda a ben più ampie radici esistenziali e culturali, maturate nei secoli che segnano il passaggio, mai concettualmente digerito dagli antichi saperi religiosi, da una visione fissista della realtà a una visione evolutiva.
Un solo cielo, una sola terra, un solo universo, un unico “Eone”
Fin dai gradini più bassi di quella realtà che il linguaggio comune definisce “natura”, la morte e la vita fanno parte di un unico processo biologico, storico e culturale il cui senso, se un senso c’è, consiste nella conservazione, nello sviluppo, nel miglioramento e nella trasmissione della vita nell’arco di un tempo e di uno spazio a tutt’oggi indefinito e indefinibile. In tale processo la morte, in contiguità con l’analogo dinamismo della nascita, gioca un ruolo essenziale. Collabora al ricambio degli individui, consentendo all’insieme di questi di arricchirsi con sempre nuove energie vitali, inedite esperienze esistenziali e strategie di sopravvivenza, più alti gradi di coscienza e capacità di partecipazione e progettazione critica.
D’altronde, se è vero che nell’universo da noi abitato non si dà vita immortale e che ogni essere (vegetale, animale e umano) in sé include la morte, è vero anche che tutti facciamo fatica ad accettare che questo dato di fatto riduca la morte naturale di un vivente alla semplice applicazione di una norma in sé indifferente al desiderio dello stesso di giungere alla piena realizzazione dei propri progetti di vita.
È esperienza comune. Troppe volte la morte sopravviene in tempi e in modi che rischiano di sottrarre senso alla vita, privandola della possibilità di realizzare ogni eventuale fine essa abbia inteso darsi. Ben pochi nel mondo muoiono dopo aver realizzato alcuni dei propri sogni. O anche, solo come Abramo, si uniscono ai padri, “sazi di giorni”. La maggior parte dei viventi nasce e muore alla rinfusa, sulle basi di una casualità più caotica ancora di quella che ha caratterizzato il loro vivere.
Chi vive, muore e l’eredità del suo vissuto a tutti appartiene
Non c’è nulla di più problematico dell’intreccio che lega la vita alla morte, e nessuno può più nascondersi il fatto che il tradizionale ricorso al teologumeno del “peccato originale”, non aiuta ad affrontarlo, anzi, ulteriormente lo complica. Ecco perché diventa sempre più urgente parlare della morte, mettendosi alla scuola della migliore teologia post-conciliare, che trova, nelle riflessioni dell’ultimo Rhaner sulla connessione tre morte e vita, il suo nuovo punto di partenza (“Sulla teologia della morte”, saggio introduttivo alla sezione escatologica di Mysterium salutis, Vol. 10, Queriniana, Brescia 1978).
“Il morire e il nascere - egli scrive -, nelle loro diverse ma comuni dimensioni di sofferenza e di gioia, sono atti che si compiono nel grado di libertà costitutiva del vivente e non possono essere pienamente compresi nel loro circoscritto ed isolato accadere. Vanno considerati parte dell’intera vita del singolo, morte compresa, e in ultimo dell’intera vita della comunità storica, che tale vita gli ha trasmesso ed a cui appartengono i frutti del suo esserne stato coprotagonista tanto nel bene e quanto nel male, tanto nell’impostazione del suo vivere, quanto in quella del suo morire”.
Ciò detto, se torniamo al Cristo in Croce, archetipo, per ogni cristiano, di Dio e dell’uomo, modello esemplare, che ormai solo le narrazioni evangeliche e le immagini dell’arte passata e presente ci consentono di contemplare, subito siamo obbligati a confrontarci con le immagini di un uomo, morto per la sua intrinseca e naturale mortalità, ma anche perché ucciso a seguito di un processo e di una condanna evidentemente ingiusta e subita per non tradire la propria e altrui, comune, dignità di vivente. Una morte che senza contraddire la naturale mortalità dell’uomo, possiamo considerare come la più orientabile a farsi simbolo della possibilità che esistono uomini la cui vita esemplare non finisce con la morte. Morti che non muoiono, proprio perché sono stati uccisi contro ogni principio di umana e divina giustizia. Morti la cui vita non solo nella vita di altri, sotto forma di memoria, continua, ma che per loro intrinseca virtù, coinvolgono nella propria simbolica “resurrezione”, la vita di quanti, come loro, hanno vivificantemente vissuto la loro stessa esperienza di vita e di morte.